Come Signore e Figlio di Dio

Davide Balliano
Davide Balliano

18 aprile 2025

Gv 18,1-19,42
Omelia di fr. Sabino Chialà, priore di Bose


Fratelli e sorelle,

abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù, in quest’ora in cui facciamo memoria del dono della sua vita per noi. Dono di salvezza, nel quale ci è narrato un ulteriore passo del Signore e Maestro nel cuore della città e di coloro che ne compongono le trame, con i quali Gesù dovrà confrontarsi: guardie dei sacerdoti, discepoli, capi religiosi e autorità politiche, soldati e folle.

Come il quarto vangelo sottolinea, Gesù entra in quest’ultimo passo (l’ultimo in suo potere) come Signore e Figlio di Dio. Nelle scene che si susseguono, Gv sottolinea che Gesù è e resta il Signore fino alla fine. Signore che interroga, che comanda, che risponde, che tace, anche, quando sa che le sue parole saranno travisate. Signore che sa prendersi cura, fino alla fine, di quanti gli cari.

Con il suo modo di stare nel male che lo avvolge e ne minaccia la vita, Gesù ci conduce così a intuire cosa siano la signoria e l’autorevolezza. Quella signoria e quell’autorevolezza che sono causa di salvezza per noi, ed espressione della sua libertà.

Da una parte, Gesù è Signore autorevole perché affronta le situazioni, non fugge, si consegna liberamente; continua a vivere quell’amore oblativo di cui abbiamo ascoltato nel vangelo di ieri sera: “Li amò fino alla fine” (Gv 13,1). La passione è il momento più alto della rivelazione del suo amore fedele.

Dall’altra, Gesù è Signore autorevole perché, in quel suo consegnarsi, non si lascia andare né alla disperazione né al cinismo, ma continua a chiedere conto, a provocare, a consegnare, a prendersi cura. E anche questo è atto di amore, perché dice il suo desiderio di risvegliare quell’umanità assopita, avvolta dentro tanta crudeltà.

Gesù offre se stesso… ma non come corpo inerme. Resta più che mai vivo e reattivo. Non è fatalista, ma credente. Vi è in lui, nel modo in cui vive gli ultimi istanti della sua vita, un misto di abbandono obbediente e di inattaccabile libertà.

Accoglie il male nella sua carne, che da quel male sarà straziata e consumata. Ma non lo accoglie nel suo cuore, che resta invece vigilante e puro. Gesù attraversa il male… ma senza lasciarsene travolgere! È come se il male lo ferisse, senza però intaccarne il cuore, la coscienza, lo sguardo, le parole... In questo Gesù ha vinto il male: non gli ha dato potere su di lui. Non se n’è lasciato trasformare, avvilire, abbrutire. Gesù lo attraversa e vi si consegna, ma restando “signore” anche del male! Vive così, per sé, quello che un giorno aveva detto ai discepoli: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28).

Muore così come il Signore, il Figlio amato del Padre, che resta tale fino alla fine. Per questo la sua morte è una glorificazione. Gesù perderà la vita, ma non la dignità, e la sua qualità di Figlio del Padre e fratello di ogni uomo e donna. Non verrà meno al suo amore, neppure a quello per i carnefici. Di questo Gv cerca di dare conto nel racconto della passione che abbiamo appena riascoltato, e che vorrei ripercorrere, semplicemente rievocando i momenti i cui Gesù mostra la sua signoria.

Gesù mostra la sua signoria quando interroga le guardie venute a catturarlo, rivolgendo loro per due volte la domanda: “Chi cercate?” (18,4.7). È un modo per risvegliarne la responsabilità, ma anche per risparmiare quelli che sono con lui: “Se cercate me, lasciate che questi se ne vadano” (18,8). Il male che vede profilarsi davanti a sé non offusca il suo senso di responsabilità. Né reagisce come chi, amareggiato dalla sofferenza, anziché proteggere quelli che sono con lui, li trascina nel vortice del suo male.

Mostra la sua signoria quando comanda a Pietro di rimettere la spada nel fodero, di rinunciare alla violenza, lasciando che egli porti a compimento la sua missione, consapevole che in quel cammino il Padre è con lui: “Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?” (18,11). Una parola che, nelle tensioni che travagliano il nostro tempo, interroga le nostre coscienze e si ripropone in tutta la sua attualità.

Mostra la sua signoria davanti alle autorità religiose ormai delegittimate, poiché Gesù è portato da Anna che in realtà è il suocero del sommo sacerdote, e avvezze al sopruso, poiché tollerano che Gesù sia schiaffeggiato con fare arrogante. Ma a chi lo percuote ingiustamente, Gesù mostra di restare nel piano della giustizia e ne chiede conto: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene perché mi percuoti?” (18,23). Non rinuncia a chiedere conto…

Mostra la sua signoria davanti a Pilato, l’autorità politica che cerca solo di svincolarsi da quell’affare increscioso, con il minimo danno, incurante di garantire la giustizia cui era deputato. A lui, l’autorità per eccellenza che, come affermano i capi, è l’unico ad avere diritto di vita o di morte sugli altri (18,31), Gesù ricorda che quell’autorità non gli appartiene, ma gli è stata data: “Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto” (19,11).

Mostra la sua signoria quando davanti ai soldati che lo insultano, in un gioco sadico che vediamo spesso riproporsi anche ai nostri giorni, o davanti alle folle che, prima lo avevano acclamato e ora, con una facilità stupefacente, si lasciano trascinare a chiederne la crocifissione, Gesù resta in silenzio, perché comprende che a un male tanto arrogante e volgare si può solo rispondere tacendo.

Mostra la sua signoria mentre, inchiodato alla croce e ormai prossimo alla fine, ha ancora occhi per gli altri, per chi soffre accanto a lui. Non solo non si lascia incattivire dalla sofferenza inflittagli da giudici iniqui, ma ha occhi per la sofferenza altrui. Vede ai piedi della croce alcune donne con sua madre e con il discepolo amato, e si prende cura di loro: lascia e affida, anche la madre, a chi potrà prendersene cura.

Infine mostra ancora la sua signoria restando, anche sulla croce, uomo che non teme di mostrarsi tale e pienamente partecipe della sua morte, congedandosi dalla vita come chi sa di aver portato a compimento la propria missione. Le ultime parole che il quarto vangelo mette sulla bocca di Gesù sono le più sintetiche dei quattro vangeli e ricordano proprio questi due tratti. Gesù dice: “Ho sete (diyw/)” (19,28) e poi: “È compiuto (tete,lestai)” (19,30). Nella prima parola egli rivela ancora il suo bisogno, tutto umano, perché tale egli resta fino alla fine. Nella seconda, ribadisce la sua consapevolezza di aver portato a termine la propria missione.

Ecco il Signore di cui oggi riviviamo la passione! Muore in croce come Signore e Maestro. In quanto Signore, la sua morte è per noi salvezza e promessa di vita nuova. In quanto Maestro, egli ci indica una strada, perché anche noi possiamo attraversare il male e abitarlo, senza lasciarcene travolgere.

Rivivere la passione per noi oggi significa fare memoria del desiderio di salvezza di Dio per noi. La croce è infatti l’immagine più alta dell’amore infinito di Dio per questa nostra umanità, con tutte le sue ombre e le sue luci.

Ma la croce è per noi anche magistero. Ha un insegnamento da consegnarci. Un insegnamento che, riprendendo il cammino che Gv ci fa fare riferendo gli ultimi istanti della vita di Gesù, raccoglierei intorno a due tratti, di cui oggi abbiamo particolare bisogno.

Il primo è quello di non farsi attrarre dal male: lasciandosene sedurre o lasciandosene spingere alla disperazione. Sono le due vie per le quali il male ci tenta. O ci convince che esso è talmente avvolgente, che tanto vale adeguarsi. Oppure ci spinge a credere che esso è talmente opprimente, che non ha senso sperare ancora. In un tempo come il nostro non è difficile lasciarsi corrompere e cedere a una di queste due seduzioni. Gesù invece ci mostra un’altra via: quella di chi il male lo interroga e così già lo argina, non consentendogli di occupare tutto lo spazio.

Il secondo tratto che la passione ci consegna è quello della cura. All’inizio e alla fine, Gesù si prende cura di chi è con lui. Il male a volte ci rende ciechi, ci fa ripiegare su noi stessi e sul nostro dolore… Gesù sa invece mettere una distanza tra sé e il suo istinto di sopravvivenza, che ha sempre una punta di narcisismo, e in quella distanza salva gli altri, e così salva anche la propria umanità.

Tra poco, contemplando il Crocifisso, reciteremo la preghiera universale con la quale ogni venerdì santo la Chiesa presenta a Dio l’umanità intera. Vogliamo così fare nostro ogni gemito e ogni grido di aiuto che in questo momento sale dalla terra, anche quello di chi non ha più la forza di gridare. Poco fa abbiamo riascoltato le Lamentazioni di Geremia. Quelle parole strazianti descrivono scenari purtroppo ancora attuali, che ora noi raccogliamo nella nostra preghiera.

E guardando al Crocifisso vogliamo anche rinnovare la nostra fede nell’amore che è più grande di ogni male e di ogni peccato, nell’amore che è più forte anche della morte.