Del buon uso della cella
5 dicembre
Fratelli, sorelle,
nella seconda domenica di Avvento il vangelo ci porta a riflettere sulla figura di Giovanni Battista e sulla sua scelta di ritiro, di solitudine, di nascondimento, il suo non abitare il centro religioso di Gerusalemme e il suo ritirarsi nel deserto. Giovanni è figura e magistero di solitudine.
La nostra Regola monastica ricorda a ciascuno di noi che “sei stato chiamato a seguire Cristo nella vita comune e nella solitudine” (RBo 7). Per noi questo significa, tra l’altro, vivere la cella. Non solo non cercare il protagonismo, l’apparire, la sovraesposizione, tendendo invece a una sobrietà mediatica, a livello comunitario, ma anche abitare la cella, a livello personale. Dobbiamo però riconoscere che molte sono le difficoltà ad abitare la cella e a vivere e perfino a sopportare la solitudine. Forse, oggi più di ieri. Certo, la cella è pedagogia alla vita interiore, ma questo teoricamente. In realtà, concretamente, questa pedagogia è oggi molto minacciata. Nella cella sono sottratto agli sguardi degli altri, sono sottratto al, diciamo così, controllo sociale, al controllo comunitario che è presente e attivo nella vita comune quotidiana. E la cella può divenire la tana, il luogo del mio estraniamento dalla vita comune, il rifugio e la fuga dagli altri. Il luogo del mio “no” alla comunità. Il luogo non della vita nascosta con Cristo in Dio ma semplicemente nascosta agli altri. Può divenire la nicchia, lo spazio privato in cui con la moltitudine dei mezzi di comunicazione che ormai ci abitano e invadono e a cui ci abbandoniamo, mi sottraggo al lavoro di pulizia, essenzialità e integrità che la cella può produrre quando è abitata con consapevolezza. E anzi, può divenire luogo di dispersione e alienazione, di comunicazione disordinata e perfino compulsiva con l’esterno. Ovvero, la cella può essere stravolta radicalmente nel suo significato. Oggi più di ieri.
La cella può aiutarci a custodire la psiche, a riconoscere i pensieri che ci assillano, le emozioni che ci agitano, i turbamenti che ci scuotono e a conviverci senza lasciarcene dominare. È il lavoro di addomesticamento delle, diciamo così, bestie interiori che giacciono nel nostro profondo. La cella può aiutarci a fare amicizia con il nostro corpo insegnandoci ad ascoltarlo e a pacificarlo, a fare tutt’uno con esso. La cella ci può insegnare un rapporto non consumistico con il tempo, un rapporto non abitato dalla fretta e dalla velocità, un rapporto contemplativo, in cui lasciamo che il tempo sia tempo e non sia cosificato e materializzato nelle attività da svolgere, nelle cose da produrre, nei doveri da adempiere. La cella, con il silenzio interiore verso cui ci indirizza, ci può istruire sull’arte del parlare con sapienza, con riflessione, con ponderatezza, con rispetto. E questo è tanto più importante in questo oggi in cui spesso l’interiorità è poco conosciuta e rischia di diventare ingovernabile gettando le persone in balia di se stesse, del proprio sentire, delle paure, delle angosce, delle fobie, dell’immaginazione incontrollata. Producendo delle fragilità decisamente accentuate.
Per tutto questo, fratelli e sorelle, siamo sobri e vigilanti perché il nostro Avversario, il Divisore, si aggira cercando una preda da divorare. Resistiamogli saldi nella fede, custodendo la solitudine e la vita in cella che ci donano la pace. E tu, Signore, abbi pietà di noi.
fratel Luciano