Fedeltà nel tempo
di Enzo Bianchi
Venuta la “pienezza del tempo” (Gal 4,4), Dio manda suo Figlio, nato da donna
“Ascoltate oggi la sua voce” (Salmo 95,7): nella Bibbia è l’alleanza con il Signore che definisce il tempo di Israele, del popolo di Dio: un tempo esistenziale misurato sul davar, la parola-evento del Signore, e sull’obbedienza del popolo di Dio a questa parola. Il tempo nella Scrittura è sempre legato alla storicità radicale dell’uomo, alla sua struttura di creatura che nell’oggi decide il proprio destino tra vita e morte, tra benedizione e maledizione. Per questo la storia è orientata a un télos – fine e meta – svelato dagli interventi di Dio che si manifesta nei progressi e nelle regressioni dell’umanità, ed è storia di salvezza perché Dio chiama continuamente l’uomo a camminare verso la luce, verso una meta che è il Regno, e gli fornisce i mezzi per farlo nell’attesa dello shalom, dono di Dio e coronamento della fedeltà degli uomini.
E’ questa concezione del tempo che verrà prolungata nel Nuovo Testamento: venuta la “pienezza del tempo” (Galati 4,4), Dio manda suo Figlio, nato da donna, e la sua vita, la sua passione-morte-resurrezione appaiono eventi storici, unici, collocati in un tempo preciso, e inaugurano gli ultimi tempi, quelli in cui noi viviamo nell’attesa della sua gloriosa venuta, attesa del Regno e del rinnovamento del cosmo intero.
Con la prima venuta di Gesù nella carne ha inizio un kairós, un tempo propizio che qualifica tutto il resto del tempo. Gesù, inaugurando il suo ministero, annuncia che “il tempo è compiuto” (Marco 1,15), che l’ora della piena realizzazione è iniziata, che occorre convertirsi e credere al Vangelo (Marco 1,15; Matteo 4,17); di conseguenza occorre utilizzare il tempo: il tempo di grazia è realtà in Gesù Cristo! Passione, morte e resurrezione di Gesù non sono un semplice evento del passato: sono la realtà del presente sicché l’oggi concreto è immerso nella luce della salvezza. Questo è il tempo favorevole, questo il giorno della salvezza (cf. 2 Lettera ai Corinzi 6,2)! Il primo atteggiamento del cristiano di fronte al tempo è allora quello di cogliere l’oggi di Dio nel proprio oggi, facendo obbedienza alla Parola che oggi risuona. Il nostro rapporto con il tempo, con Crónos tiranno che divora i suoi figli, viene così trasformato per assumere dei connotati precisi: si tratta di saper giudicare il tempo (cf. Luca 12,56), di discernere i segni del tempo (cf. Matteo 16,3) per giungere a cogliere “il tempo della visita di Dio” (Luca 19,44). Il credente sa che i suoi tempi sono nelle mani di Dio: “Ho detto: Tu il mio Dio; i miei tempi nella tua mano” (Salmo 31,15b-16a).
E’ l’atteggiamento fondamentale: i nostri gironi infatti non ci appartengono, non sono di nostra proprietà. I tempi sono di Dio e per questo nei Salmi l’orante chiede a Dio: “Fammi conoscere, Signore, la mia fine, qual è la misura dei miei giorni” (Salmo 39,5) e invoca: “Insegnaci a contare i nostri giorni, e i nostri cuori discerneranno la sapienza” (Salmo 90,12). La sapienza del credente consiste in questo saper contare i propri giorni, saperli leggere come tempo favorevole, come oggi di Dio che irrompe nel proprio oggi.
Il cristiano deve “vegliare e pregare in ogni tempo” (Luca 21,36), impegnato in una lotta antiidolatrica in cui il tempo alienato è l’idolo, il tiranno che cerca di dominare e rendere schiavo l’uomo. Per Paolo il cristiano deve cercare di usare il tempo a disposizione per operare il bene (cf. Galati 6,10), deve approfittare del tempo (cf. Colossesi 4,5) e, soprattutto, quale uomo sapiente, deve salvare, redimere, liberare, riscattare il tempo (cf. Efesini 5,16). Tutto questo perché il tempo del cristiano è tempo di lotta, di prova, di sofferenza. Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta ancora operante l’influsso del “principe di questo mondo” (2 Lettera ai Corinzi 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio (Cf, 1 Lettera di Pietro 1,17), in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1 Lettera ai Corinzi 15,28).
Il cristiano infatti sa – e non ci stancherà mai di ripeterlo in un’epoca che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tantomeno di eternità, in un’epoca appiattita sull’immediato e l’attualità – il cristiano sa che il tempo è aperto all’eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui “Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebrei 13,8; cf. Apocalisse 1,17). Il télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene.
Se questa è la dimensione autentica del tempo del cristiano, allora capiamo in profondità la portata di queste affermazioni di Dietrich Bonhoeffer: “La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, ‘memoria’, altrimenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno ‘smemorato’, e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile”.
Scritte più di cinquant’anni fa, queste parole sono ancora molto attuali e pongono il problema della fedeltà e della perseveranza: realtà oggi rare, parole che non sappiamo più declinare, dimensione a volte sentite perfino come sospette o sorpassate e di cui – si pensa – solo qualche nostalgico dei “valori di una volta” potrebbe auspicare un ritorno. Ma se la fedeltà è virtù essenziale a ogni relazione interpersonale, la perseveranza è la virtù specifica del tempo: esse pertanto ci interpellano sulla relazione con l’altro. Non solo, i valori che tutti proclamiamo grandi e assoluti esistono e prendono forma solo grazie ad esse: che cos’è la giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la perseveranza di uomini liberi? Non esiste valore né virtù senza perseveranza e fedeltà! Così come, senza fedeltà, non esiste storia comune, fatta insieme. Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per l’uomo e, in particolare, per il cristiano. Quest’ultimo, infatti, sa bene che il suo Dio è il Dio fedele, che ha manifestato la sua fedeltà nel Figlio Gesù Cristo, “l’Amen, il Testimone fedele e verace” (Apocalisse 3,14) in cui “tutte le promesse di Dio sono diventate sì” (1 Lettera ai Corinzi 1,20). Queste dimensioni sono dunque attinenti al carattere storico, temporale, relazionale, incarnato della fede cristiana, e la delineano come responsabilità storica.
La fede esce dall’astrattezza quando non si limita a informare una stagione o un’ora della vita dell’uomo, ma plasma l’arco della sua intera esistenza, fino alla morte. In questa impresa il cristiano sa che la sua fedeltà è sostenuta dalla fedeltà di Dio all’alleanza, che nella storia di salvezza si è configurata come fedeltà all’infedele, come perdono, come assunzione della situazione di peccato, di miseria e di morte dell’uomo nell’incarnazione e nell’evento pasquale.La fedeltà di Dio verso l’uomo è cioè diventata responsabilità illimitata nei confronti dell’uomo stesso. E questo indica che le dimensione della fedeltà e della perseveranza pongono all’uomo la questione ancor più radicale della responsabilità. L’irresponsabile, così come il narcisista, non sarà mai fedele. Anche perché la fedeltà è sempre fedeltà a un “tu”, a una persona amata o a una causa amata come un “tu”: non ogni fedeltà è pertanto autentica! Anche il rancore, a suo modo, è una forma di fedeltà, ma nello spazio dell’odio. La fedeltà di cui parliamo avviene nell’amore, si accompagna alla gratitudine, comporta la capacità di resistere nelle contraddizioni. V. Jankélévitch definisce la fedeltà come “la volontà di non cedere all’inclinazione apostatica”. Essa è pertanto un’attiva lotta la cui arena è il cuore umano. E’ nel cuore che si gioca la fedeltà!
Questo significa che essa è vivibile solo a misura della propria libertà interiore, della propria maturità umana e del proprio amore! Le infedeltà, gli abbandoni, le rotture di impegni assunti e di relazioni a cui ci si era impegnati, situazioni tutte che spesso incontriamo nel nostro quotidiano, rientrano frequentemente in questa griglia. E dicono come sia limitante, all’interno della chiesa, ridurre il problema della fedeltà e della perseveranza, e quindi del loro contrario, alla sola dimensione giuridica, di una legge da osservare. In gioco vi è sempre il mistero di una persona, non semplicemente un gesto di rottura da sanzionare. Il gesto di rottura va assunto come rivelatore della situazione del cuore, cioè della persona. Anzi, in profondità, la dimensione dell’infedeltà, non è estranea alla nostra stessa fedeltà, così come l’incredulità traversa il cuore del credente stesso. Che altro è la Bibbia se non la testimonianza della tenacissima e ostinata fedeltà di Israele a voler narrare la storia della propria infedeltà di fronte alla fedeltà di Dio? Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele? In questo senso il cristiano “fedele” è colui che è capace di memoria Dei, che ricorda l’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della chiesa, avviene nell’anamnesi eucaristica.
tratto da:
ENZO BIANCHI, Le parole della spiritualità,
Rizzoli, 1999 pp.61-66