Il senso di colpa
Se il nostro cuore ci accusa, Dio è più grande del nostro cuore e discerne ogni cosa (cf. 1Gv 3,20). La parola della Bibbia lascia intendere che non ci si dovrebbe affidare al senso di colpa, sia che si adotti con Calvino e gli antichi riformatori l’interpretazione di un Dio ben più severo del “nostro cuore”, sia che si adotti con Lutero e i moderni l’interpretazione di un Dio ben più misericordioso del “nostro cuore”. L’età moderna ha fatto un passo ulteriore
mostrando che la colpevolizzazione è uno stato d’animo non necessariamente corrispondentea una realtà. La difficoltà di descrivere il senso di colpa dipende dalla difficoltà di rendere conto della suagenesi. Si noti la definizione che ne fornisce Françoise Dolto: “Un verme roditore nel cuore, uno stato affettivo, un sentimento diffuso di indegnità personale, talvolta senza relazione con un preciso atto riprovevole, con un atto di carattere nocivo volontario” (F. Dolto, G. Sévérin, La libertà d’amare, Rizzoli, Milano 1979, p. 101).
Questo stato affettivo si presenta anzitutto come una propensione naturale a farsi carico dell’infelicità imposta dall’esterno, della colpa altrui. Nessun argomento razionale è in grado di influenzare la reazione più spontanea al verificarsi di una disgrazia: cosa ho fatto per meritare questo? Ora, questo farsi carico diventa ben presto inconsapevole, e il soggetto non sa più se ha commesso o subito ciò che gli è capitato. Qui si intravvede come la sua autoaccusa diventi subito per lui il mezzo per esercitare un potere su se stesso e per negare il senso di totale impotenza in cui lo avevano lasciato la disgrazia e/o la colpa altrui. Il risvolto attivo della colpevolizzazione rappresenta quello che spesso attualmente viene chiamato un “vantaggio”: una compensazione sufficiente perché il soggetto, anche se si lamenta, malgrado tutto resti attaccato al suo senso di colpa. Il fatto è che punendo se stesso il soggetto recupera un potere narcisistico tale che può immaginarsi di aver “pagato” abbastanza per essere ormai perfetto e irreprensibile. Si può parlare di “peccato in senso biblico” – cioè di rottura della relazione con Dio – a partire dal momento in cui l’intensità del senso di colpa provoca il ripiegamento della persona su se stessa e l’incapacità di comunicare. Ma è chiaro che nessuno può giudicare in proposito, né la persona stessa, né qualcuno di esterno: è questa la conseguenza dell’affermazione biblica centrale secondo la quale solo la grazia può far prendere coscienza a una persona del peccato nel quale essa prima si trovava; o, in termini più esistenziali, solo una relazione realmente libera può far prendere coscienza a qualcuno della paura che prima ostacolava quella relazione. È tuttavia possibile individuare, come punti di riferimento, due criteri per discernere una colpevolizzazione positiva, ricca di potenzialità di ricaduta su di sé e di vita nuova, da una colpevolizzazione
che distrugge la relazione con Dio e, immancabilmente, anche quella con gli altri. Il primo criterio è questo: i sensi di colpa sono fecondi, stimolanti? Aprono alla relazione con l’altro-Altro? La favoriscono? Se questo non avviene essi creano quell’autosufficienza che è peccato per definizione, intesa come rottura della relazione con l’altro-Altro. La cecità più pericolosa dal punto di vista della fede consiste nell’annettersi Dio e nel confondere una visione prettamente umana con la sua visione. Questo è dovuto, da una parte, all’intensità del senso di colpa e al bisogno di giustificazione (potere così minaccioso che se ne attribuisce facilmente l’origine a Dio), e dall’altra, al “vantaggio” principale della colpevolizzazione che consiste nel ritrovare il potere perduto. A una situazione dolorosa di frustrazione, di fallimento o di impotenza, la persona contrap-pone la “spiegazione” offerta dalla colpevolizzazione, pronunciandosi sovranamente sul bene e sul male al posto di Dio, cosa che le permette di risparmiarsi la dimensione di ingiustizia della sofferenza e la dimensione di mistero inesplicabile del male e del dolore.
Evangelizzare il senso di colpa significa vivere una conversione di quella che è una propensione naturale. Non è naturale rinunciare a organizzare la propria vita in funzione della colpevolizzazione, reale o immaginaria che sia. I “vantaggi” del senso di colpa sono tali che si pensa di avere troppo da perdere. Ora, è necessaria proprio la forza dell’invito evangelico a “perdere la propria vita” per arrischiarsi a uscire da se stessi, cioè dal sistema di sopravvivenza rappresentato dalla “spiegazione” della colpevolizzazione. “E quelle diciotto persone sulle quali è caduta la torre di Siloe e le ha uccise, pensate che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,4-5), dice Gesù: voi sarete “perduti”, non riuscirete a reperire la verità profonda del vostro essere che si trova in Dio. E a quelli che volevano lapidare una donna adultera, Gesù dice: “Chi tra di voi non ha mai peccato le getti la prima pietra ... Voi giudicate secondo la carne [secondo i criteri umani, secondo la propensione naturale alla colpevolizzazione], io non giudico nessuno” (Gv 8,7.15).
L. Basset, Il senso di colpa, qiqajon, Bose, pp. 49-106.