Confessare e conservare la fede

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

29 giugno 2025

Ss. Pietro e Paolo
Matteo 16,13-19 (At 12,1-11; 2Tm 4)
di Luciano Manicardi

In quel tempo 13Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». 14Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».


Al cuore della celebrazione odierna vi è la memoria di Pietro e Paolo. Il pescatore di Galilea reso pescatore di uomini e il fariseo zelante della Legge, il persecutore dei cristiani, conquistato da Gesù Cristo e reso apostolo delle genti; Pietro, il primo del gruppo dei Dodici e Paolo, che di quel gruppo non ha fatto parte e non ha conosciuto Gesù storicamente, ma è stato reso apostolo per volontà del Signore; Pietro, l’apostolo dei circoncisi, e Paolo, l’apostolo degli incirconcisi. Vie differenti, vite diverse, itinerari distanti, personalità entrate in conflitto tra di loro (cf. Gal 2,11ss.), eppure, in Cristo, entrambi affratellati a tal punto che i loro cammini esistenziali hanno trovato in Roma il luogo del martirio. Un unico cammino di obbedienza al Cristo Signore conduce entrambi, nelle differenze che li caratterizzano, a dare la vita per il Signore. Con Pietro e Paolo siamo di fronte a due forti personalità, a due uomini di passioni e convinzioni, chiamati a mettere a servizio del Signore risorto e del vangelo la loro personalità. E chiamati anche a discernere ciò che della loro personalità, del loro carattere, delle loro convinzioni, deve essere smussato, mitigato, addomesticato, o anche tralasciato e messo a morte, affinché possa trasparire il messaggio evangelico più che la loro stessa personalità.

Se il vangelo (Mt 16,13-19) è centrato sulla figura di Pietro e sul suo mandato ecclesiale, la prima (At 12,1-11) e la seconda lettura (2Tm 4,6-8.17-18) riguardano momenti dell’esperienza della sofferenza apostolica di Pietro (At 12: l’incarcerazione di Pietro) e di Paolo (2Tm 4: la prossimità alla morte di Paolo).

La prima lettura presenta un frangente particolarmente critico della giovane comunità cristiana di Gerusalemme. Giacomo è stato decapitato; Pietro incarcerato: chi sosterrà la comunità? Di fronte alle persecuzioni che si abbattono sui suoi capi, la comunità prega. Una particella greca con valenza avversativa (At 12,5: “Pietro dunque era detenuto in carcere, ma una preghiera…”) dice che la preghiera è una forma di resistenza con cui la comunità cristiana vive la sua lotta contro i potenti del mondo che scatenano persecuzioni e violenze. Inoltre, con la preghiera la comunità rimane vicina a Pietro in carcere e intercede per lui, “combatte con e per lui” (cf. Rm 15,30; Col 4,12), manifesta la sua obiezione nei confronti della prepotenza dei potenti, persevera nella fede e non si piega agli eventi avversi. Pietro dunque è isolato in prigione, ma in verità non è solo: la comunità è con lui grazie alla preghiera. In Atti 12,12 si dice che nella casa di Maria, madre di Giovanni, “molti erano riuniti e pregavano”. Probabilmente questa riunione di preghiera si riferisce alla celebrazione pasquale. Così il racconto della liberazione dalle catene di Pietro, il suo esodo dalla casa di prigionia, si inserisce come una sorta di haggadah cristiana nella celebrazione pasquale: “Pietro narrò loro come il Signore lo aveva tratto fuori dal carcere” (At 12,17). Del resto il testo di Atti12 rievoca per più aspetti il capitolo 12 dell’Esodo sulla notte pasquale, la notte in cui la festa della pasqua ha accompagnato l'uscita dalla casa della schiavitù egiziana, la liberazione esodica, avvenuta con i fianchi cinti e i sandali ai piedi, così come qui Pietro riceve il comando di “mettersi la cintura e legarsi i sandali” (At 12,8), per iniziare il suo personale esodo.

Nella seconda lettura Paolo, al termine della sua esistenza, in prossimità ormai del traguardo, guarda la sua vita a partire dal momento finale che sa vicino: e la considerazione che più colpisce è che egli constata di aver conservato la fede (cf. 2Tm 4,7). Gesù, in un momento critico del proprio cammino esistenziale, aveva pregato per Pietro, perché la sua fede non venisse meno (cf. Lc 22,32). Paolo, al termine della sua vita, con umile fierezza e senso di gratitudine, riconosce di aver conservato la fede. Al termine di una vita spesa per l’evangelizzazione, la missione, la predicazione della parola, il servizio del vangelo, la fondazione e l’organizzazione di comunità cristiane, Paolo ricorda il suo essere ancora un credente. A dire che la fede non può mai essere data per scontata, anche per gli uomini di chiesa. Forse la grande fatica apostolica è proprio questa: conservare la fede. Custodire la fede fino alla fine significa vincere le tentazioni del cinismo e dell’incredulità. Il tempo che passa e proprio in un'esperienza di vita cristiana seria, pensata, motivata, radicale, con fini e mete alti, può ingenerare cinismo quando ci si scontra con mediocrità, con tensione bassa, con discorsi deludenti, con un pensiero vuoto, con vite di scarso spessore umano, con incoerenze e doppiezze. Paolo ha mantenuto la fede, ma certo la sua fede è molto mutata, e solo mutando essa ha potuto continuare a vivere. La fede la si conserva non irrigidendola, quasi ingessandola, perché la fede è in intima relazione con la vita, con la storia e con l’esistenza del singolo credente come della comunità cristiana. Paolo poi parla della fede utilizzando le immagini della lotta e della corsa. Paolo ha combattuto e ha corso. “Ho combattuto la buona battaglia”, egli dice. La vita è stata un faticoso combattimento, anzitutto con se stesso. Come dimenticare la rievocazione drammatica della sua lotta interiore? “Io non riesco a capire ciò che faccio: infatti, faccio non quello che voglio, ma quello che detesto … In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo … Nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (cf. Rm 7,14-24). Altrove ricorda gli innumerevoli pericoli corsi, le avversità incontrate, le ostilità e le inimicizie patite. La vita di Paolo non è stata affatto tranquilla o di tutto riposo, ma anzi un’estenuante fatica che l’ha spossato anche fisicamente. Ma forse il frutto maturo di un’esistenza è prodotto da fatiche e difficoltà affrontate con coraggio e fede. Certo, Paolo non è stato sedotto da quel demone della facilità che sembra sedurre tanti oggi ma che dimentica che le grandi realizzazioni umane costano sforzo, fatica, sofferenza. Ora, terminata la corsa, Paolo può dire di aver salvaguardato l’essenziale: la fede.

Nel vangelo Pietro viene proclamato beato da Gesù perché la confessione di fede in lui quale Messia e Figlio di Dio è frutto di rivelazione del Padre (cf. Mt 16,17). Paolo affermerà che è per rivelazione di Dio che egli ha conosciuto l’evangelo e il Figlio Gesù Cristo (cf. Gal 1,12.16). Sia Pietro che Paolo rientrano tra quei piccoli a cui la conoscenza delle cose di Dio, ed essenzialmente la conoscenza di Gesù, in cui si sintetizza il tutto di Dio, viene consegnata per rivelazione, per dono divino (cf. Mt 11,25-27). E la conoscenza pneumatica di Gesù, la relazione con lui e l’amore per lui sono il cardine attorno a cui ruota il ministero di Pietro e di Paolo.

Alla confessione di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16), risponde la parola di Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16,18). Pietro sa bene (come anche Paolo: 1Cor 3,11) che non vi è altra pietra di fondamento dell’edificio della chiesa al di fuori del Cristo risorto (1Pt 2,4ss.). Ma attraverso le immagini della roccia, delle chiavi e del potere di sciogliere e legare, Pietro è stabilito come il necessario punto di autorità e di comunione nella chiesa. Non la sua persona (il sangue e la carne) dà stabilità alla chiesa, ma la sua fede che rinvia a Colui che è il Signore della chiesa. Se Pietro è roccia, chi edifica è il Signore: “io edificherò”. Pietro è l’uomo capace di fiducia e di fede. Non sempre, non senza ombre, non senza cadute, ma questo è ciò che viene messo in luce dal testo biblico. Un testo rabbinico dice che quando Dio volle creare il mondo, non sapeva su cosa appoggiare le fondamenta. Ma quando Dio vide che sarebbe apparso Abramo disse: “Ecco ho trovato la roccia su cui posso costruire e fondare il mondo. Per questo egli chiamò Abramo ‘roccia’ come sta scritto in Is 51,1: ‘Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, guardate ad Abramo, vostro padre’”. Abramo è roccia, cioè padre del popolo d'Israele per la sua fede; analogamente si può dire in riferimento al popolo della nuova alleanza, per Pietro, la roccia, lodato da Gesù per la sua fede. Probabilmente il titolo di roccia fu dato ad Abramo in epoca esilica: il titolo che designava la roccia su cui era fondato il tempio, una volta distrutto il tempio, in epoca esilica fu trasferito su Abramo, il padre dei credenti. Sembra dunque di poter ravvisare nel testo di Matteo una tipologia abramitica riversata su Pietro. Ma accanto alla fede, nella tipologia di Abramo vi è anche quella della paternità. Quella paternità che Pietro dovrà esercitare nei confronti dei suoi fratelli confermandoli nella fede (cf. Lc 22,32). La fede salda di Pietro si manifesta nella capacità di paternità, di generare, portare e sostenere altri nel loro cammino di sequela del Signore e nella loro vita di comunione.