Umili per abitare il mondo in verità

Giovanni Frangi
Giovanni Frangi

31 agosto 2025

XXII domenica nell’anno
Luca 14,1.7-14 (Sir 3,17-18.20.28-29)
di Luciano Manicardi

1 Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. 7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cedigli il posto!». Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
12Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch'essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».


La prima lettura (Sir 3,17-18.20.28-29) contiene un messaggio sull’umiltà quale attitudine umana gradita a Dio e che rende amabile colui che la vive. Ad essa viene contrapposto l’orgoglio colto come malattia incurabile (“non c’è rimedio”: Sir 3,28). Il testo del Siracide suggerisce di trovare un pendant nella pagina evangelica (Lc 14,1.7-14) negli atteggiamenti antitetici di chi, invitato a pranzo, si va a mettere all’ultimo posto e di chi invece, sceglie il primo posto. All’umiliazione di colui che con supponenza si era messo nei primi posti ma ne viene allontanato da chi l’ha invitato, corrisponde l’umiltà di colui che aveva occupato gli ultimi posti e che viene fatto avvicinare dall’anfitrione.

Quando esorta il discepolo a comportarsi con mitezza (en praǘteti) perché così sarà amato (Sir 3,17), il sapiente non fa che constatare una verità che emerge dall’esperienza: normalmente gli umani apprezzano chi si comporta con umiltà e modestia mentre aborriscono superbi e arroganti. La persona umile lascia spazio all’altro, pone limiti a sé e così si apre all’incontro, anzi, invita l’altro all’incontro con gentilezza. Troppo pieno di sé, saturo del proprio io e invaghito della propria superiorità, il superbo dichiara il suo non-bisogno di altri e così gli altri si distanziano da lui e lo sentono come non-amabile. Il comportamento mite incontra poi anche il compiacimento di Dio. La coppia “mitezza-umiltà” qui riferita al singolo, la troviamo applicata collettivamente al resto d’Israele in Sof 3,12: “Lascerò in mezzo a te un popolo mite e umile (praǜn kaì tapeinòn)” e la ritroviamo nel vangelo a caratterizzare Gesù stesso. Anzi, in modo eccezionale nei vangeli, è Gesù stesso che si autodefinisce “mite e umile” (praǘs eimi kaì tapeinòs tê kardía:Mt 11,29).

Chiediamoci: perché l’umiltà incontra il favore di Dio? Perché situa l’essere umano nella verità del suo rapporto con Dio facendolo vivere del dono divino. Tutto ciò che una persona è e ha è dono di Dio sicché possiamo cogliere l’umiltà come la perseverante memoria del dono di Dio, cioè, della realtà che fonda la vita di fede. L’umiltà è coessenziale alla fede, anzi, la fede è interamente umiltà. Il superbo è l’ateo per eccellenza perché ha il proprio io come dio. Di più. Da un lato, l’umiltà non ha nulla a che vedere con l’atteggiamento posticcio di chi si mostra da meno di quel che è, dall’altro, essa non impedisce all’uomo di essere grande, di avere talenti e capacità che lo distinguono ma, ponendolo nella verità davanti a se stesso, agli altri e a Dio, lo porta a riconoscere tutto come dono, non come merito proprio. Per questo il sapiente esorta: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile” (Sir 3,18).

“Umiltà” è termine che deriva da humilitas, che ha a che fare con la bassezza della terra (humus): essa ricorda all’uomo la sua dimensione creaturale e lo colloca come creatura davanti al Creatore e come uomo (homo) accanto ad altri uomini. Scrive Agostino: “O uomo, riconosci di essere uomo; tutta la tua umiltà consista nel conoscerti”. In questo senso, umiltà è autenticità e giusta coscienza di sé. Se l’umile si situa come uomo con e accanto agli altri uomini, il superbo invece si pone sopra agli altri. O, per riprendere le immagini del vangelo, “davanti” e “prima” degli altri. Il termine greco che designa il superbo è yperéphanos (Sir 3,28), formato dal prefisso ypér (sopra) e il verbo phaíno che significa “apparire”, “mostrare”, ma anche “splendere”, “rifulgere”. Il bisogno di visibilità, di essere riconosciuto negli attributi di grandezza e superiorità che per lui sono vitali è la patologia senza rimedio (ouk éstin íasis: Sir 3,28) del superbo. Questa lettura dell’orgoglio come “patologia” sembra raggiungere quanto ha scritto lo psichiatra Ludwig Binswanger a proposito dell’“esaltazione fissata” che egli intende come “una forma di sproporzione antropologica”: “L’esistenza umana, che non solo si progetta in una dimensione orizzontale, nel senso dell’ampiezza, ma che procede, sale verso l’alto, è sempre minacciata dalla possibilità di smarrirsi in questa ascesa, di perdersi in forme di esaltazione fissata [...] L’esaltazione fissata comporta che l’esistenza salga troppo in alto, più di quanto sia consentito dalla sua ampiezza, più di quanto le consenta il suo orizzonte di esperienza e di comprensione; in altre parole, che il rapporto tra l’ampiezza e l’altezza non sia più proporzionato”. Proiettandosi più in alto degli altri, l’essere umano intende dominare e appropriarsi di ciò e di chi sta più in basso. In questo modo, il superbo si distacca dagli altri e dalla realtà stessa. Per questo, Ben Sira consiglia al discepolo: “Non cercare cose troppo difficili per te (la traduzione latina parla di cose “troppo alte”) e non scrutare cose troppo grandi per te (“cose che superano le tue forze”)” (Sir 3,21) e gli ricorda che l’uomo sapiente desidera “un orecchio attento”. Cioè, un orecchio che sa ascoltare la realtà e che porta l’uomo ad aderire alla realtà riconoscendo in essa una parabola (“il cuore sapiente medita la parabola”: Sir 3,29), ovvero, cogliendola nella sua dimensione simbolica, come rinvio al Dio creatore e signore. Con il rimando al cuore che medita la parabola e all’orecchio attento al reale (Sir 3,29), il sapiente ragguaglia i discepoli “sul desiderio primordiale che devono avere se vogliono diventare saggi: devono desiderare di diventare umili discepoli del reale, cuori che meditano tutti gli aspetti della creazione per cogliere il messaggio del creatore che è un messaggio d’amore” (Marc-François Lacan).

Il vangelo presenta Gesù che, invitato a mangiare a casa di un eminente fariseo, viene spiato (Lc 14,1). Spesso Gesù è oggetto di uno sguardo indagatore malevolo che cerca di “coglierlo in fallo”, ovvero in contraddizione con la precettisca sul sabato o con altre tradizioni (cf. Lc 6,7; Lc 20,20). A questo sguardo che cerca occasioni per giudicare e condannare, Gesù oppone uno sguardo che accoglie e corregge. È infatti “notando” (vb. epécho; cf. At 3,5 dove significa “guardare”, “tenere lo sguardo fisso su”) come gli invitati “sceglievano i primi posti” (Lc 14,7) che Gesù pronuncia una “parabola” che riguarda prima gli invitati (14,8-11) e poi colui che invita (14,12-14). Si tratta di una sorta di parabola in contesto. In diretta, potremmo dire. Non c’è distanza tra l’evento e la narrazione. Invitato a tavola, Gesù parla di come comportarsi da parte dell’invitato e da parte di chi invita. Questa parabola non è un’altra storia che parla di pescatori o contadini o pastori o massaie, ma parla di ciò che si sta vivendo in quello stesso momento. Come nelle parabole tuttavia, anche qui le parole di Gesù sono abitate dal paradosso, sono rinvio alla dimensione teologica e mirano alla trasformazione dell’ascoltatore. Il paradosso è la logica che abita le parabole: il piccolissimo grano di senape diviene un grande albero (Mt 13,31-32); un pastore va in cerca di una sola pecora smarrita e lascia le altre novantanove rischiando di perdere pure quelle (Lc 15,4-7); il padrone della vigna dà lo stesso salario a chi ha lavorato un’intera giornata e a chi ha lavorato un’ora sola (Mt 20,1-16). La logica del paradosso disorienta per ri-orientare. E non è forse paradossale l’esortazione a non invitare a pranzo amici, famigliari e conoscenti a favore di perfetti estranei? Chi di noi si comporta così? Ma questa logica che contrasta con il buon senso e con l’attitudine normale delle persone non mira a cambiare l’etichetta dei ricevimenti bensì a dire l’azione di Dio. E i riferimenti teologici ed escatologici si fanno sempre più espliciti nelle parole che costituiscono l’insieme della “parabola” (Lc 14,7-24). Dall’espressione secondo cui gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi (v. 11) al riferimento alla resurrezione dei giusti (v. 14) e infine al Regno di Dio (v. 15), il discorso passa dal banchetto in casa del fariseo (trasmutato in “banchetto di nozze” nel linguaggio parabolico di Gesù: v. 8) al banchetto escatologico preparato da Dio per l’umanità e che viene accolto da poveri ed emarginati mentre lascia indifferenti i primi chiamati (vv. 15-24). Infine la parabola di Gesù mira alla trasformazione della prassi del lettore-ascoltatore rivelandogli l’agire di Dio: egli scopre di poter guardare altrimenti il mondo e di potervi intervenire per modificarne le logiche. Scopre di potervi inserire la logica paradossale del vangelo.

Collocando queste parole nel contesto di un banchetto Gesù indica la valenza simbolica di quell’atto e, accanto ad esso, di ogni gesto umano. E Gesù avverte che invitare può essere il modo di costruire una rete di potere e di creare un debito: l’invito come ricatto, come instaurazione di do ut des. Quanto agli invitati, essi vengono situati tra l’onore (v. 10) e la vergogna (v. 9). E se l’onore unisce in sé la coscienza che una persona ha del proprio valore e la considerazione positiva del suo gruppo sociale, la vergogna distrugge entrambe queste connotazioni positive inducendo la persona a sparire avendo perso la faccia: nella vergogna è il senso del sé della persona che viene annichilito. Al di là dunque dei posti nel banchetto, qui viene intravisto il posto dell’uomo nel mondo. E l’umiltà è la via da seguire per abitarlo in verità.