La gratitudine della fede
12 ottobre 2025
XXVIII domenica nell’anno
Luca 17,11-19 (2Re 5,14-17)
di Luciano Manicardi
11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».
La prima lettura (2Re 5,14-17) presenta la guarigione dalla lebbra dello straniero Naaman a opera del profeta Eliseo e il vangelo (Lc 17,11-19) narra la guarigione, a opera di Gesù, di dieci lebbrosi di cui uno solo, uno straniero (un samaritano), torna a ringraziarlo. Il tema dell’azione di grazie, della capacità eucaristica lega le due letture. Naaman, che voleva sdebitarsi con Eliseo per la guarigione ottenuta e che incontra il rifiuto del profeta, ottiene un po’ di terra d’Israele per poter venerare il Signore, Dio d’Israele. La gratitudine appare così nella sua dimensione teologale. Il profeta scompare davanti al Signore, vero autore del beneficio, e Naaman rivolge a Dio il suo ringraziamento. Anche il vangelo presenta la dimensione eucaristica della fede: il ringraziamento del samaritano a Gesù (cf. Lc 17,16) esprime la sua fede (cf. Lc 17,19).
Il testo di 2Re mostra la difficoltà, soprattutto per un uomo importante, ricco e potente come Naaman (2Re 5,1), di riconoscersi debitore: coprire di denaro e preziosi chi lo ha beneficato significherebbe “sdebitarsi”, far divenire l’altro grato nei suoi confronti, e così non perdere la propria grandezza e la propria immagine di uomo che “non deve nulla a nessuno”. La gratitudine è difficile e richiede la messa a morte del proprio narcisismo per entrare nel novero di coloro che si sanno graziati.
Il testo evangelico si apre con un’annotazione geografica che dice che Gesù, mentre andava verso Gerusalemme, “attraversava” la Samaria e la Galilea. Penso che quell’“attraversare” vada inteso nel senso di “costeggiare”, di “passare lungo la frontiera”, dando collocazione anche fisica all’atteggiamento di Gesù quale uomo della soglia, che abita i confini. Di fatto, subito dopo, egli incontrerà un gruppo di lebbrosi che si rivelerà composto di giudei e samaritani, popoli ormai separati da inimicizie religiose e ostilità reciproche, ed egli destinerà a tutti indistintamente la sua azione terapeutica.
Apprestandosi a entrare in un villaggio, ecco che un gruppo di dieci lebbrosi gli si fanno incontro fermandosi a distanza. La legislazione che regolava il comportamento di quanti erano afflitti da lebbra imponeva loro di stare lontani dai centri abitati (“il lebbroso … abiterà fuori dell’accampamento”: Lv 13,46) e di andare in giro gridando la propria condizione di impurità per avvertire della propria presenza contagiosa e impura e consentire di evitarli a chi li avesse incrociati sul cammino (“il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto, velato fino al labbro superiore, andrà gridando: ‘Impuro! Impuro!’”: Lv 13,45). Tuttavia, questo gruppo di uomini ci viene presentato non in atto di gridare la propria impurità, ma di supplicare aiuto. Le parole che rivolgono a Gesù sono una preghiera colma di fiducia e di speranza: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi” (Lc 17,13). La loro supplica echeggia espressioni che i Salmi di frequente rivolgono a Dio (Sal 6,2; 31,10; 41,5; 51,3-4) ed esprime la loro fede nel potere di Gesù di guarirli. Colpisce che Gesù, ascoltata la loro richiesta, non compia alcun gesto (come invece nei confronti del lebbroso in Lc 5,12-16, quando “Gesù tese la mano, lo toccò dicendo: ‘Lo voglio, sii purificato’”, e il narratore annota che “immediatamente la lebbra scomparve da lui”: Lc 5,13). Gesù li invia immediatamente a farsi visitare dai sacerdoti che dovevano verificare l’avvenuta guarigione e dunque riammettere alla partecipazione al culto avendo constatato la sparizione dell’impurità. Ma i dieci uomini obbediscono a Gesù senza che la guarigione sia avvenuta. Tutti loro mostrano fede in Gesù obbedendo alla sua parola pur senza aver visto nessun gesto di cura verso di loro e tanto meno di guarigione. Vanno a “mostrarsi” ai sacerdoti senza essere guariti! Potremmo chiederci il perché di questo atteggiamento di Gesù. Come intenderlo? Quale significato avrebbero potuto dare alle sue parole i dieci uomini? Come una maniera di liberarsi di loro? Di non prenderli sul serio? Un po’ come avviene per quella donna cananea che gli si era fatta incontro supplicandolo con analoghe parole (“Abbi pietà di me”, eléesón me: Mt 15,22; cf. “Abbi pietà di noi”, eléeson emâs: Lc 17,13.) a cui Gesù prima non aveva nemmeno risposto e poi aveva rivolto parole aspre e dure. In realtà, essi non interpretano così l’atteggiamento di Gesù, non mostrano delusione, non mormorano con rimostranze, non criticano quella che avrebbero potuto sentire come indifferenza e perfino presa in giro da parte di Gesù. Obbediscono a Gesù mostrando fede in lui. Ed è nel cammino, “mentre andavano” (Lc 17,14), che avviene la guarigione. Il loro mettersi in cammino senza essere guariti è una manifestazione straordinaria di fede nella parola di Gesù e nella sua persona. Potremmo dire che credono senza avere visto. Sembra che abbiano fatto proprio l’atteggiamento del Salmista che crede nell’esaudimento nel mentre stesso che implora aiuto: “Quando ho gridato al Signore con la mia bocca, la sua lode era già sulla mia lingua. Se il dubbio fosse stato nel mio cuore il Signore non avrebbe ascoltato” (Sal 66,17-18). Tutti e dieci hanno fede, eppure una differenza radicale emerge tra di loro quando uno solo torna da Gesù per ringraziarlo: “Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce e si prostrò davanti a Gesù per ringraziarlo” (Lc 17,17). Tutti sono guariti, ma uno solo lo vede, cioè lo riconosce e vi risponde. Quest’uomo sa vedere ciò che è avvenuto alla propria vita, riconosce che è grazie a un altro che è avvenuto ciò che è avvenuto e risponde a questo evento: cambia strada, non va dai sacerdoti, ma da Gesù e lo ringrazia. Nulla di rituale o di religioso in tutto questo. La differenza tra i nove e questo uno è nel suo saper vedere e rispondere. Si tratta di una differenza che si situa sul piano prettamente umano e precede la differenza religiosa che separava giudei e samaritani e i loro rispettivi luoghi di culto e sistemi sacerdotali. E che diversifica anche la fede che pure tutti hanno mostrato. Tanto che solo al samaritano Gesù dirà: “La tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19). Qual è la differenza? Luca presenta nel samaritano la fede come propedeutica all’umano, la fede che insegna a vivere umanamente, la fede che approfondisce l’umano e rende autentiche le relazioni umane. Presenta la fede che insegna a vedere se stessi e a riconoscere l’altro, la fede che radica l’uomo nell’umano e non ve lo sradica. Sradicamento che a volte è operato dalla religione. Il Dio che il samaritano loda è quello che si è manifestato nell’uomo Gesù. È una differenza puramente umana, di atteggiamento umano, di presa sul serio dell’umano. La solenne proclamazione “la tua fede ti ha salvato” va dunque intesa come: ti ha posto nell’unità, ti ha dato integrità, ti ha situato nella tua verità umana. La tua fede aderisce alla tua umanità, fa tutt’uno con essa. È a questa fede, che integra pienamente l’umano, che Gesù dice il suo sì. Gli altri nove si saranno fatti vedere dai sacerdoti e avranno certamente goduto della nuova condizione di guariti, ma non avranno visto ciò che è intervenuto nella loro vita e così saranno restati nella loro cecità, nell’inerzia di chi ha occhi e non vede, orecchie e non sente, bocca e non parla. Guariti dalla lebbra, ma non dalla cecità.
Il samaritano non si presenta ai sacerdoti, ma ringrazia Gesù. E Gesù non si lamenta del fatto che nessun altro sia venuto a ringraziare lui – gli è sconosciuta l’arte perversa di fare del ringraziamento dovuto un’arma di ricatto –, ma si stupisce che uno solo sia tornato indietro a dare gloria a Dio, che uno solo abbia riconosciuto il Dio che agisce nei rapporti intraumani e abbia saputo discernere il Dio che lui narra nella sua umanità. Davvero, non è più sul monte Garizim, dove celebravano il culto i samaritani, o nel tempio di Gerusalemme, dove adoravano i giudei (cf. Gv 4,21) e da cui già erano dovuti uscire i sacerdoti quando la nube della presenza divina ne aveva preso possesso (1Re 8,10), ma nell’umanità di Gesù che va riconosciuta la presenza di Dio. Non nella mediazione religiosa, ma nell’immediatezza umana.
E autentificazione della fede è la dimensione eucaristica, ovvero la capacità di riconoscere, nel senso di entrare nel riconoscimento per giungere alla riconoscenza. Si tratta di riconoscere l’intervento di Dio nella semplicità e opacità dell’umano, del reale. Ma il riconoscimento è pieno quando si dilata nel rendimento di grazie. Quando lo sguardo che ha visto l’umano, da quello stesso umano risale al divino. Allora il culto è autentico e celebrato nella vita, nella trama delle relazioni, nella qualità dei gesti, delle parole e degli sguardi. Allora la conversione è compiuta: il samaritano “tornò indietro (hypéstrepsen) lodando Dio a gran voce” (Lc 17,15). La lode a Dio si unisce in modo inscindibile al rendimento di grazie a Gesù. Nell’uomo Gesù si manifesta il volto di Dio.