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Un impasto di pazienza, parsimonia e leggerezza
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La Repubblica, 14 dicembre 2014
di ENZO BIANCHI
Tra i lasciti che nel mondo contadino una generazione trasmetteva all’altra come beni preziosi vi erano due elementi molto concreti e al tempo stesso fortemente simbolici: gli uomini consegnavano ai figli la “madre” dell’aceto, il fermento che trasforma in sapore intenso l’evanescenza del vino; le donne trasmettevano alle figlie la pasta “madre”, il lievito naturale che genera altro pane. Enzimi che nascevano da realtà quotidiane – un po’ di vino, un impasto di acqua e farina – e che si sviluppavano nell’oscurità di una cantina o nel tepore di una madia. Il vino della gratuità, una volta smarrita la sua forza, riceve nuova vita facendosi agro; il pane della necessità trova nell’acidità del lievito una leggerezza di cui sarebbe incapace. E se la madre dell’aceto sviluppa nel tempo le sue potenzialità da sola, accontentandosi di ricevere ogni tanto un rabbocco di vino, il lievito richiede cura, attenzione, costante rimessa in gioco da parte di chi giorno dopo giorno lo utilizza per il nuovo pane.
Lievito è divenuto fin dai tempi biblici sinonimo di realtà piccola, nascosta ma capace di far muovere grandi masse – il Vangelo lo paragona addirittura al mistero del regno di Dio – di dilatare le dimensioni della materia con cui è mescolato. Ma lievito è anche invito alla pazienza, al saper aspettare i tempi di maturazione, al non perturbare il microclima circostante; è richiamo – stiamo parlando di quello naturale, ottenuto dalla pasta madre – a saper custodire, al non consumare tutto ma a mettere da parte qualcosa in vista di un domani in cui il patrimonio del passato diventa pegno per il futuro. Pazienza, lavoro, mani tenere e braccia robuste, acqua che amalgama, farina che imbianca l’impasto e poi ne diviene parte, tepore che stimola... tutta questa fatica e sapienza per ottenere qualcosa di impalpabile: la leggerezza, la sofficità, la fragranza, la complementarietà tra pieno e vuoto.
Certo, anche per la lievitazione, come per ogni lavorìo che richiede pazienza, esistono scorciatoie, accelerazioni chimiche, surrogati che ottengono “quasi” lo stesso risultato: ma quante volte la qualità delle nostre vite si misura proprio su ciò che manca a quel “quasi”, su quella leggerezza naturale che si ha per aggiunta di aria, di soffio, di respiro e non per ansia di bruciare le tappe. Se mangiare pane non lievitato è segno di fretta, di impazienza, di tempi accorciati, mangiare pane secco significa aver lasciato svanire la vivacità del lievito, aver interrotto quel continuo pulsare della crescita al cuore del pane e anche aver spezzato la catena che unisce un impasto di farina con quello che l’ha preceduto.
Chiediamoci allora se nel nostro quotidiano sappiamo custodire quanto ci è stato trasmesso, se riusciamo ad astenerci dal consumare tutto e subito, se affrontiamo l’impasto delle nostre esistenze con la leggerezza che le dilata, se ci riconosciamo debitori verso l’amorevole cura di chi ci ha preceduto. Ne va della lievitazione del nostro piacere di vivere.