Paternità spirituale
Osservatore Romano, 8 ottobre 2016
Gli aspetti di patrologo e pastore non riguardano fasi distinte della vita di Michele Pellegrino, scrive Clementina Mazzucco, ma si possono considerare sempre compresenti, se si tiene conto che pastore egli diventa già col sacerdozio, assunto a ventidue anni nel 1925, e che l’interesse per i Padri della Chiesa incomincia poco tempo dopo, con gli studi universitari alla Cattolica di Milano, dove si iscrive nel 1925, segue i corsi di Paolo Ubaldi docente di letteratura cristiana antica, e si laurea nel 1929 con una tesi su Gregorio di Nazianzo, a cui aveva lavorato dall’anno prima. Da sacerdote insegna patrologia in seminario; quando diventa docente di letteratura cristiana antica all’università, conserva alcuni servizi pastorali nei giorni festivi. Da sacerdote e da docente sviluppa un’ampia produzione letteraria di tipo divulgativo che dà ampio spazio ai Padri e anche da vescovo ricorre regolarmente ai Padri negli scritti pastorali.
Se c’è stato nella sua vita un passaggio da una fase all’altra che ha rappresentato uno stacco significativo è stato quello tra l’insegnamento all’università di Torino e la carica episcopale, un passaggio vissuto dolorosamente, perché Pellegrino non solo aveva ricavato grande soddisfazione da quella docenza, ma aveva ritenuto idealmente importante che l’insegnamento dei Padri della Chiesa, o meglio degli autori cristiani antichi, entrasse e crescesse nelle università di stato italiane, in quanto, secondo la sua espressa convinzione, serviva a superare la frattura deleteria tra ambiente profano e ambiente religioso, tra cultura teologica e cultura laica e a realizzare in misura sempre maggiore i valori umani e cristiani. Egli stesso aveva tratto benefici dall’operare in un ambiente di cultura laico. Ma quando si dimise dall’incarico episcopale e gli venne prospettata la concreta possibilità di ritornare in cattedra, una cattedra a vita, dopo aver riflettuto, rifiutò col motivo che non poteva più spogliarsi del suo carattere di vescovo e si sentiva al servizio della Chiesa a tempo pieno.
Mentre Roberto Repole, nelle conclusioni, ha notato che è abbastanza usuale, in questi ultimi anni, accostare dei cristiani che abbiano conosciuto il cardinale Pellegrino, che siano rimasti avvinti da questo pastore che ha sentito, come pochi altri, l’urgenza di recepire e attuare il concilio nella sua Chiesa torinese, e sentire che essi avvertano una profonda sintonia tra alcune istanze di fondo della visione ecclesiologica sottesa al magistero di papa Francesco e quella dell’allora vescovo di Torino.
Una consonanza tra visioni che distano, però, più di cinquant’anni l’una dall’altra; e che proprio per questo giustificano l’aggettivo profetico per esprimere qualcosa della figura e del ministero di Pellegrino. In Michele Pellegrino c’è stata profezia: una profezia, occorre dirlo da subito, che ha le sue radici nella novità sempre attuale e sconvolgente del Vangelo, come quella sorgente inesauribile a cui la Chiesa, nel concilio Vaticano II, aveva nuovamente attinto e a cui aveva rimandato. Questo giustifica un atteggiamento analogo riscontrabile oggi, in Francesco e, ieri, in Michele Pellegrino: un’attenzione puntuale e talvolta minuziosa ai testi conciliari unita ad un’attenzione altrettanto spassionata allo spirito del concilio, componibili solo in un’ermeneutica dei testi capace di leggerli come recezione e, insieme, rimando costante al Vangelo vivo di Cristo. E che la profezia concerna anzitutto l’immagine della Chiesa trova facilmente riscontro anche solo nel fatto che le lezioni di commento ai testi conciliari in cattedrale di Torino offerte dal vescovo siano iniziate, il 2 gennaio 1966, proprio dalla Lumen gentium e nel fatto che la costituzione sulla Chiesa sia stata il documento conciliare più citato in assoluto durante il suo ministero episcopale.
Infine, Paolo Siniscalco nel suo intervento cita un prezioso documento rimasto finora inedito. Pellegrino scrisse ben otto pagine dattiloscritte, dense, ricche di significati, in una data che è molto importante da notare: il dicembre del 1981. Pagine, queste sue, che risultano essere le ultime o tra le ultime della sua eccezionale vicenda intellettuale, accademica e culturale: l’8 gennaio del 1982 sarebbe stato colpito da quella grave menomazione che lo avrebbe paralizzato e gli avrebbe tolto completamente l’uso della parola.
Ebbene, è significativo che egli ancora una volta abbia richiamato quelle che mi sono sembrate linee costanti dei suoi interessi. Egli scrive: «Sia permesso a un professore di letteratura cristiana antica in pensione (professore “onorario”) nel presentare un lavoro di due antichi alunni, richiamare un momento - propriamente l’inizio “ufficiale” - della sua carriera. Anch’io, nominato professore di ruolo (dopo che da sette anni insegnavo questa materia come “incaricato” dovetti fare la prolusione d’uso. Scelsi un tema: “Umanità della letteratura cristiana antica”. Mi proponevo di mostrare come la letteratura cristiana di primi secoli, animata da un profondo spirito religioso, impegnata nel parlare di Dio e tesa verso l’eterno, si presentava nello stesso tempo come autenticamente “umana”, consapevole della situazione dell’uomo e ansiosa di dare risposta alle sue esigenze e aspirazioni profonde».
Tags: Osservatore Romano