I pericoli da evitare nel presiedere la liturgia
I PERICOLI DA EVITARE NEL PRESIEDERE LA LITURGIA
L'Osservatore Romano
26 luglio 2008
Di LOUIS-MARIE CHAUVET
Presiedere nel nome di Cristo significa servire. Questo servizio deve prendere forma concreta in un ethos presidenziale che richiede oggi alcuni «riposizionamenti» rispetto al passato. Ne sottolineiamo due principali.
Il primo «riposizionamento» concerne la maniera di negoziare il rapporto tra la presidenza «nel nome di Cristo e della Chiesa» e l’appartenenza alla Chiesa stessa. Il presidente infatti deve manifestare che anch’egli fa parte della Chiesa, che egli è anzitutto un battezzato e che se Dio, attraverso il sacramento dell’ordine, gli ha conferito una responsabilità e un «potere spirituale» particolari nella Chiesa, ciò è sulla base dei sacramenti dell’iniziazione, grazie ai quali è diventato membro del «corpo di Cristo» e pietra viva del «tempio dello Spirito santo». Del resto, unitamente alle esortazioni del Concilio riguardanti la «partecipazione attiva» del popolo cristiano, sono le condizioni culturali attuali a richiedere da lui che, lungi dal ridurre la sua funzione di presidente all’antica funzione di «intercessore», abbia cura di far pregare attivamente la comunità insieme a lui, di aiutarla a «disporsi» per l’ascolto della Parola...
Essendo anzitutto un battezzato, egli deve dunque, al pari di ogni cristiano, pregare ciò che dice, accogliere nelle letture la Parola di Dio, esultare con il canto dell’Alleluia, unirsi alla liturgia celeste con il Sanctus, e così via; in quanto ministro ordinato, che presiede dunque in persona Christi e in persona Ecclesiae, ha il compito di far entrare la comunità nella preghiera di Cristo attraverso quella della Chiesa. Queste due esigenze sono peraltro tra loro legate: il primo modo di aiutare l’assemblea a far propria la preghiera della Chiesa è quello di farla propria a livello personale. Tutto ciò ovviamente ha delle ripercussioni sulla sua posizione rispetto all’assemblea. Se è cosa eccellente che, in quanto presidente, egli sia rivolto verso il popolo e non più di spalle, c’è tuttavia da chiedersi se questa posizione sia favorevole alla sua interiorizzazione delle preghiere liturgiche. Da parte nostra, siamo del parere che ci siano alcuni momenti in cui è bene che anche lui sia rivolto verso la croce, per esempio durante l’atto penitenziale oppure quando vengono pronunciate le intenzioni della preghiera universale.
Il secondo «riposizionamento» concerne in maniera diretta l’ars celebrandi, che è strettamente legata alle condizioni sociali e culturali. Riguarda in modo particolarissimo la richiesta attuale di appropriazione interiore della celebrazione da parte di numerosi cristiani. Chi presiede, di conseguenza, non può più limitarsi, sulla base della sua legittimità istituzionale e sacramentale, ad eseguire correttamente le prescrizioni del rituale; deve permettere all’assemblea di abitare l’azione in corso. A tale scopo, deve tendere a «fare la verità» di ogni momento liturgico. L’ethos presidenziale deve dunque essere contrassegnato da quella che ci sembra essere la regola d’oro in materia di liturgia (si tratta di una «urgia», per l’appunto, e non di una «logia»): «non dite ciò che fate, fate ciò che dite».
Quanto è stato appena detto lo lascia intendere: allo stato attuale della cultura in seno alle nostre democrazie occidentali, il problema fondamentale della liturgia non è quello di cercare dalle parti di un terzo Concilio Vaticano che elabori testi liturgici nuovi o proponga nuove dinamiche simboliche. La creatività oggi invocata dal popolo cristiano si situa a monte di tutto ciò: nella maniera stessa di dire e di fare… In questa prospettiva è necessario proseguire la lotta contro la tendenza a spiegare la liturgia al momento della celebrazione. Quest’ultima è ancora troppo ingombra di discorsi esplicativi. L’intenzione didattica che vi presiede è certo encomiabile, ma la liturgia, lo si voglia o no, perde allora il suo peso misterico: da oggettivamente intelligente e soggettivamente intelligibile quale deve essere, essa diventa intellettuale!
Si commetterebbe dunque un grave errore pastorale se ci si precipitasse senza discernimento sull’attuale domanda di «personalizzazione» della presidenza ministeriale. Ma si commetterebbe un errore probabilmente altrettanto grave se questi soli rischi servissero da giustificazione per conservare l’ethos presidenziale foggiato da tutta un’altra cultura; anche se va riconosciuto che, poiché la funzione del presbitero è di fare sacramentalmente segno verso il Cristo che presiede, una personalizzazione troppo spinta della propria presidenza ministeriale costituisce probabilmente un pericolo più grave, dal punto di vista teologico, di una neutralizzazione troppo forte. È bene dunque restare particolarmente vigilanti nei confronti delle presidenze liturgiche «calde», che trasformano il presbitero in «animatore», come reclama volentieri la nostra epoca. Tuttavia i pericoli di questa sopravvalutazione del «carisma» individuale e delle emozioni non devono mascherare l’importanza della domanda di fondo: poiché i cristiani non sono più semplicemente degli «eredi», poiché si chiede loro di cercare in se stessi le ragioni per partecipare regolarmente alle celebrazioni liturgiche, essi attendono necessariamente da queste che li nutrano e che il presbitero che le presiede mostri effettivamente di avere tale sollecitudine. E questa non è una buona cosa, nonostante i rischi segnalati? Tale è in ogni caso la nostra esperienza pastorale, esperienza gratificante al cuore stesso delle difficoltà…
Si potrebbe elaborare qui una tipologia sommaria dei presbiteri che presiedono. Si potrebbero infatti visualizzare facilmente due «tipi» di presidente, suddividendoli in zone determinate da due assi, verticale e orizzontale: interiorità / esteriorità, spiritualità / missione, pietà / comunicazione… Si vedrebbero apparire il «missionario», il «carismatico», il «teatrale», il «rubricista», il «pio», il «teologo». Nessuno di questi tipi è evidentemente da assolutizzare o da escludere… Non c’è «una» buona maniera di presiedere: dipende fondamentalmente dalla personalità umana e spirituale di ciascuno. Del resto «deve» essere così, se è vero che il sacramento dell’ordine non può essere compreso se non come innestato sui sacramenti dell’iniziazione cristiana.
L’importanza qui riconosciuta, per ragioni sia teologiche che contestuali, al «soggetto» presidente non fa che acuire l’importanza di una «valutazione» da parte di altri. Siamo ben consapevoli di mettere qui i piedi su un terreno che scotta, soprattutto perché troppi presbiteri, ci sembra, hanno talmente incollato la propria persona alla funzione che ogni osservazione critica sul modo in cui esercitano quest’ultima li tocca quanto mai sul vivo. Tuttavia dal punto di vista teologico – lo sottolineiamo – tale questione non è così secondaria come la teologia tradizionale, in genere troppo concentrata sulla validità (o efficacia oggettiva) degli atti sacramentali, lascia spesso credere. Il Concilio di Trento ha peraltro attirato l’attenzione in questa direzione. Probabilmente senza volerlo, dato che la questione da risolvere concerneva la comunione sotto le due specie e non, come nel nostro caso, un problema di appropriazione personale dell’azione sacramentale e/o liturgica. Il Concilio dichiarava infatti che «la Chiesa ha sempre avuto il potere di stabilire o modificare nell’amministrazione dei sacramenti, fatta salva la loro sostanza, quegli elementi che ritenesse più utili per chi li riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti» (Dottrina e canoni sulla comunione sotto le due specie e la comunione dei fanciulli, 17 luglio 1562, DH 1728). Così la finalità dei sacramenti e, più in generale, della liturgia è «l’utilità di chi li riceve», vale a dire il bene spirituale dei partecipanti. In questa prospettiva, una presidenza che fosse così preoccupata della «validità» della sua azione da dimenticare o per lo meno minimizzare le condizioni che permettono la fecondità soggettiva, cioè il «bene spirituale» – che è ciò cui mira essenzialmente tale azione nella vita dei partecipanti, così come sono plasmati dalla cultura attuale –, verrebbe meno alla propria missione. È appunto la fecondità di ogni celebrazione liturgica che è qui determinante! Molto è già stato fatto, e ciò ha portato veri frutti di santità nella Chiesa. Ma molto resta da fare. La nostra post-modernità ci richiede in ogni caso di proseguire il cammino.