Walter Kasper - Perdono cristiano e riconciliazione tra le chiese
XXIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
MISERICORDIA E PERDONO
Bose, 9-12 settembre 2015
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
di Walter Kasper
Giustizia, perdono e misericordia sono questioni umane universali. Le incontriamo, sotto forme diverse, nei miti, le religioni, la filosofia e la poesia dell’intera umanità. Si tratta dunque di questioni esistenziali di ognuno di noi. Non c’è nessuno che non voglia vivere in un mondo giusto e che non abbia bisogno di perdono e di misericordia, da parte di Dio e dei suoi vicini.
D’altra parte, è un segno dei tempi che la coscienza delle colpe e della propria colpevolezza, sia tanto diminuita da apparire spesso quasi assente. Si parla talvolta di follia d’innocenza che, per cause psicologiche o sociologiche, si sostituisce alla colpa personale, e spesso accusa il messaggio cristiano di insinuare nelle persone una coscienza nevrotica di colpa. Di conseguenza: se non c’è peccato, non c’è bisogno di perdono e di redenzione. Il seme del messaggio cristiano della redenzione cade su un terreno sassoso e arido, se non nel vuoto.
In tale situazione anche la misericordia è diventata fuori moda. In una società post-patriarcale la “misericordia” finisce per essere fraintesa con un atteggiamento di superiorità. Non si chiede più misericordia, anzi si pretende il proprio diritto di cittadino.
Vorrei limitarmi a segnalare, a questo proposito, una sola ragione di una tale situazione. Oltre a una predicazione talvolta errata del peccato, del perdono e della misericordia, oltre a un’immagine di Dio che punisce e si vendica, c’è il fatto che parlare di peccato, di perdono e di misericordia presuppone, come quadro di riferimento, un ordine prestabilito, assente nell’attuale pluralismo. Per le antiche culture e religioni questo ordine era rappresentato dalla giustizia.
Si pensi soprattutto alla cultura dell’Egitto antico e alla sua concezione della ma’at, che difficilmente va tradotta con giustizia nel significato più corrente che noi attribuiamo a questa parola. Allora la giustizia aveva un significato molto più ampio e omnicomprensivo rispetto a come lo percepiamo oggi. La giustizia significava l’ordine sacro del cosmo e della società, che era stato prestabilito per noi, e a noi affidato perché potessimo implementarlo e realizzarlo. Così il concetto di un uomo giusto era impregnato di religiosità e implicava concetti quali timore del sacro, saggezza e rettitudine.
La Bibbia si situa in questa antica tradizione orientale, che poi essa pervade e supera con la sua concezione di Dio e del mondo. Pertanto, prima di parlare di perdono e di misericordia, conviene soffermarci sulla giustizia nel senso della Bibbia quale cornice di riferimento.
I. La giustizia infranta e restituita
Secondo la definizione filosofica classica, la giustizia è la virtù che concede a ognuno, suum cuique, ciò che gli spetta (Ulpiano, III sec.). Questa definizione si ritrova anche in Tomaso d’Aquino ed è diventata fondamentale per tutta la tradizione filosofica. Essa, tuttavia, lascia aperta una questione e cioè: che cosa sia concretamente questo suum, che spetta alle persone. Nell’attuale situazione, per rispondere alla domanda: che cosa sia concretamente giusto, occorre sempre e di nuovo appianare o comporre interessi e bisogni.
Il concetto Biblico della giustizia zaddiq e zeddaqia (giusto e giustizia) è diverso. Non sta in opposizione a questa definizione, ma la determina e la rende concreta. Esso intende la giustizia come fedeltà all’alleanza di Dio con Abramo (Gen 15) e poi con il suo popolo eletto (Es 19 s.; Dt 5 s.). Giusto è colui chi si attiene alla legge dell’alleanza (Ex 24,3; Dt 5,1; 6,17.25; Sa 106,3.31), e l’ubbidienza alla volontà di Dio ovvero la fede va accreditata come giustizia (Gen 15,6; Sa 106,3.31; Rm 4,3.9.22; Gal 3,6; Gc 2,23). Così la giustizia non è un ordine delle cose e del cosmo, soprattutto non è solo una questione economica, ma la giustizia consiste sia nel rapporto relazionale e comprensivo di fede con Dio, sia nel rapporto solidale e rispettoso fra gli uomini e nel rapporto responsabile con il creato, che è affidato all’uomo e al suo uso perché lo coltivi e lo custodisca (Gen 1,28; 2,15; Sa 8,7 ss.).
Il profeta Michea riassume: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6,8; cfr. Os 1,21). Gesù ha riassunto tutto nel primo comandamento: amare il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e amare il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12,29-31 par.).
È la convinzione fondamentale della Bibbia, che Dio è giusto e giudicherà il mondo con giustizia, con rettitudine deciderà le cause dei popoli (Sa 9,9; Atti 17,36). In principio, Egli ha creato tutto bene, anzi molto bene, in armonia perfetta, in cui ogni persona e ogni cosa ha il suo posto e il suo compito (Gen 1 s). L’alienazione da Dio ha causato l’alienazione fra gli uomini, fra l’uomo e la donna, fra i popoli e le culture, fra l’uomo e la natura, l’alienazione della vita da se stessa, a causa del destino di morte (cfr. Gen 3s), e dell’uomo da se stesso, fino al punto che egli non si comprende più (cfr. Rm 7,14-25), fino all’estremo: l’uomo diventa stanco della sua vita (Giobbe 10,1). Secondo Paolo tutta la creazione è stata sottoposta alla caducità e aspetta ardentemente di essere liberata dalla schiavitù della corruzione; tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8,19-22).
Per restituire o riconciliare l’odine infranto, l’Antico Testamento, con lo ius talionis, riprende un’antica tradizione orientale che si trova per esempio già nel codice di Hammurabi (ca. 1750 a. C.). Dopo il danno che ha subìto, l’ordine prestabilito sarà restituito attraverso una compensazione. Ogni danno va compensato o equilibrato con una punizione che gli corrisponde: “Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es 21,24-5; Lev 24,17-21; Dt 19,21). L’interesse di questa legge non è la vedetta, ma la limitazione, e la riduzione di una punizione fuori misura come essa si trova nella parola violenta di Lamec: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (Gen 4,23 s). Così lo ius talionis riduce la violenza a una misura adeguata e può arginare il male, ma non è in grado di superarlo, anzi può portare anche a un cerchio vizioso d’ingiustizia e vendetta, di violenza e contro-violenza.
La stessa incapacità a superare il male vale anche per la sostituzione della punizione con un rito, ovvero riti espiatori d’abluzione e di penitenza, o con sacrifici. Il rito più conosciuto è quello del giorno della penitenza (Yom kippur) con il capro espiatorio che cancella la colpa del popolo e che, per la colpa del popolo, rappresentativamente è condannato alla morte (Lev 4-5; 16). Anche qui prevale l’idea di una compensazione.
Benché questo rituale fosse stato istituto da Dio e facesse parte dell’alleanza (Es 19 ss; Dt 12 ss.), nondimeno già i profeti e alcuni Salmi lo criticano severamente. I profeti affermano: Non basta l’abluzione esteriore, Dio vuole la purificazione e la conversione interiore del cuore. La predicazione fondamentale dei profeti è la chiamata alla conversione (schub; metanoia) a Dio, cioè il ritorno al rapporto e all’amore iniziale (Os 2,21 s.; 14,5). “Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza” (Is 30,15; cfr. Os 14,2 s; Ger 3,19-4,4; Ez 33,11 ecc.). “Tu non gradisci il sacrificio, se offro olocausti tu non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 51,19; cfr. 34,19; 40,7 s; Is 66,2 ss.; Gl 2,12 s). Dio vuole diritto e giustizia e non sacrifici (Am 5,21-27; Is 1,10-17; 5, 8, 5-8; Zac 7,5-10), vuole la misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti (Os 6,6).
La stessa critica è mossa da Gesù: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini” (Mc 7,1-23). Il suo messaggio messianico, che il regno di Dio è vicino, è imprescindibilmente connesso con la chiamata alla conversione (metanoia) (Mc 1,14 par.; Lc 13,1-5 ecc.). Gesù cita due volte il profeta Osea: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9.13; 12,7). L’amore “vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici“ (Mc 12,33).
Il messaggio profetico e gesuano rappresenta la fine di una lunga epoca religiosa e culturale, cioè di una religiosità ritualistica e legalista che, come vedremo, anche nell’epoca cristiana è continuata e talvolta continua ancora Questo messaggio profetico è l’inizio di una interiorizzazione della religione. Di pari passo con questa interiorizzazione, anche l’idea di una colpa collettiva del popolo è abbandonata, e inizia una personalizzazione del peccato (Ez 18; Ger 31,29 s.; cfr. Lc 13,5; Gv 9,1 s.).
Questi due sviluppi caratterizzano in un modo specifico la nostra epoca moderna. Però nella concezione biblica l’interiorizzazione non riguarda soltanto l’interiorità del cuore, anzi essa è complessiva e dunque inclusiva di concrete forme di penitenza tradizionalmente enumerate nella triade “preghiera, digiuno ed elemosina” (Tob 12,8), soprattutto l’elemosina, perché la carità copre una moltitudine di peccati (1 Pt 4,8). Queste forme di penitenza nella predicazione profetica non hanno più una funzione ritualistica, ma sono espressione e realizzazione concrete della conversione e segno della sua serietà.
Neanche la personalizzazione non vuole né può significare un’autonomizzazione, vale a dire che il peccatore per mezzo della conversione personale possa autonomamente togliere via il peccato e lasciarselo alle spalle. Per la Bibbia una tale autoassoluzione o autogiustificazione disconoscerebbe la gravità del peccato. Già all’inizio Dio indica chiaramente che la violazione dell’ordine porterà alla morte (Gen 3,3). “Il Salario del peccato è la morte” dice Paolo (Rm 6,23; cfr. 5,12.21). Il peccatore va condannato a morte, perché con la violazione dell’alleanza ha distrutto il fondamento della vita e dunque merita la morte.
Nessuno può liberarsi da sé dalla morte. Signore della vita e della morte è solo Dio. Pertanto solo Dio, dopo la rottura del peccato, può donare la vita nuova. Così già nell’Antico Testamento perdonare è un attributo esclusivamente divino (Is 55,7; Ger 33,6-8; 50,20; Mi 7,18 s; Sal 103; 130,4.7). Nel Nuovo Testamento gli avversari di Gesù ripetono questa posizione: Solo Dio può perdonare e perciò è bestemmia perdonare un peccato da parte di un uomo (Mc 2,6-9; Mt 9.3 s.; Lc 5,21; 7,48). Ecco la riscoperta di Lutero, su cui esiste oggi un consenso fondamentale: La giustizia non è un’opera e un merito dell’uomo; la giustizia è gratuita; Dio, che è giusto, rende anche giusti (Rm 1,17; 3,21). Solo la giustificazione da parte di Dio e il suo perdono del peccato sono in grado di sostituire la condanna alla morte con un’assoluzione alla vita. Lutero evidenzia, così, che il perdono non è una generosità liberale e tollerante, che non prende sul serio il peccato; anzi il perdono è una questione di vita e di morte.
Questo dramma di vita e morte non spetta solo all’individuo, ma alla pace fra gli uomini e in tutto il cosmo; esso non riguarda soltanto l’individuo, ma la pace tra gli uomini e in tutto il cosmo. “Praticare la giustizia darà pace; la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (Is 32,17). Opus iustitiae pax. Nella Bibbia “pace” (shalom) è un termine omnicomprensivo, che significa restituzione dell’ordine infranto, nel popolo, fra i popoli, nella natura e nell’intero cosmo. La promessa della Bibbia è che alla fine vincerà la giustizia e sarà sconfitta ogni ingiustizia, violenza e menzogna. Dio si mostrerà come avvocato dei poveri, dei deboli, delle vedove e degli orfani (Am 2,6; 5,12; Is 1,17.23; 3,14 s). Alla fine dei giorni tutti i popoli pellegrineranno al monte del Signore e sarà una pace universale. “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra” (Is 2,2-5; Mc 4,1-5; cfr. Is 11; 60; 66). Allora sarà pace anche nella natura e nel cosmo. “Il lupo dimorerà insieme con l'agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto (Is 11,5-12). In questi giorni Dio sarà chiamato “Signore-nostra-giustizia” (Ger 23,5 s.).
Ma i Libri sapienziali, soprattutto da Giobbe e Qoèlet, riflettono su cosa valga la continuazione della vita, se essa soggiace al destino della morte, la quale proietta nella vita dell’uomo le sue ombre premonitrici: sfortuna, sciagura, disgrazia, malattia e sofferenza. Già nei profeti matura il pensiero che la vita restituita non è solo la compensazione e la restituzione di quella perduta, ma è connessa con la promessa di un nuovo. L’idea del nuovo, che purtroppo nel cristianesimo è spesso discriminata, diventa fondamentale. “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,18 s.). Geremia parla di una nuova alleanza (Ger 31,31), e Ezechiele di un cuore nuovo e di un spirito nuovo (Ez 11,19; 18,31; 36,26; cfr. Sal 51,12). Si prepara così l’idea neotestamentaria della nuova vita senza fine, la vita eterna, la vita in abbondanza (Gv 10,10).
Insomma, il perdono e la restituzione non sono un ritorno all’ordine primordiale, ma la via di accesso a un nuovo ordine, che sfocia nella nuova creazione, già annunciata dai profeti più tardivi (Is 65,17; 66,22) e realizzata attraverso la risurrezione di Gesù dalla morte (2 Cor 5,17; Gal 6,15; cfr.; Ap 21,1). Nella pienezza dei tempi quando Dio riunirà e riconcilierà tutte le cose in Cristo, unico capo (Ef 1,10; cfr. Col, 1,20) dirà: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). La riconciliazione non è un ritorno all’ordine primordiale e non solo una restituzione, ma consiste in un rinnovamento operato dalle storiche azioni salvifiche di Dio e dalle risposte dell’uomo. In questo quadro, il concetto biblico del perdono non è solo un’assoluzione del passato ma anche la preparazione di un nuovo futuro del mondo come dimora della giustizia.
II. Misericordia nell’Antico Testamento
A questo punto siamo confrontati alla domanda centrale: Perché Dio non ha messo in atto la sua minaccia, secondo la quale il peccatore morirà? Perché Dio ha placato la sua giusta ira contro il peccato? Secondo la sua giustizia, Dio non deve ricompensare i buoni e punire i peccatori? Come riconciliare il perdono di Dio con la sua giustizia?
Già all’inizio, Adamo ed Eva, benché scacciati dal paradiso, possono continuare a vivere; inoltre Dio fa per loro tuniche di pelli e li veste perché possano sopravvivere e resistere al caldo e al freddo (Gen 3,21). Poi quando Dio vede che la malvagità degli uomini è grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non è altro che male, si pente di aver fatto l'uomo e vuole sterminare lui e ogni essere vivente sulla terra, ma Noè trova grazia agli occhi del Signore (Gen 6,6-8). Dopo il diluvio Dio promette: “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo” e garantisce l’esistenza e l’ordine del cosmo. “Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno” (Gen 8,21 s.; cfr.9,8-17). Dopo il fallimento della torre di Babele, la confusione delle lingue e la dispersione dei popoli, Dio fa con Abramo un nuovo inizio (Gen 11 s). Sempre Dio ha mostrato che non vuole la morte, vuole la vita (Ez 18,23.32; 33,11; Sap 1,13), egli è un amico della vita (Sap 11,26).
Perché? In tutta la storia finora rievocata troviamo la realtà, ma non la parola “misericordia”. La parola misericordia compare per la prima volta nella rivelazione a Mosè. Dal rovente ardente Dio mostra la sua compassione; egli vede la miseria del suo popolo, ascolta il suo grido e conosce le sue sofferenze (Es 3,7). Dio è un Dio che vede, che ascolta, che ha compassione. Dopo la nuova disubbidienza del popolo, Dio rivela a Mosè: “Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia” (Es 33,19). La misericordia è dunque espressione dell’assoluta libertà e sovranità di Dio. La sua reazione misericordiosa non è deducibile da un concetto umano di giustizia; essa è espressione della sovranità di Dio. Pertanto nella prossima rivelazione Dio dà quasi un riassunto del suo agire misericordioso: “Il Signore, il Signore, è un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà” (Es 34,6). Questo riassunto si è impresso nella memoria d’Israele. Quasi come un ritornello, i Salmi e i profeti lo ripetono spesso (Sal 86,15; 103,8; 111,4; 112, 4; 116,5; 145,8; cfr. Gl 2,13; Giona 4,2). Il profeta Michea commenta: “Dio si compiace d’usar misericordia” (Mi 7,18). Di nuovo: Perché?
La risposta si trova all’apice della rivelazione veterotestamentaria della misericordia da parte del profeta Osea. Egli viveva una situazione drammatica. Il popolo aveva infranto l’alleanza ed era diventato una prostituta disonorata. Perciò Dio aveva rotto con suo popolo. Il suo popolo non è e non sarà più il suo popolo (Os 1,6). Tutto sembra finito, e non s’intravede più un futuro. Ma poi si verifica una svolta drammatica. Dio dice: “Il mio cuore si rivolta contro di me” (Os 11,8). Il testo originale suona ancora più drastico: Dio capovolge la propria giustizia, per così dire la getta via. Il posto dello sconvolgimento annientatore è preso dallo sconvolgimento all’interno di Dio stesso. Perché la compassione di Dio esplode e Dio non vuole tradurre in atto la sua ira incandescente. La misericordia ha in lui la meglio sulla giustizia. Questo non è espressione dell’arbitrario di un Dio irascibile. La motivazione che Dio stesso dà di questa svolta è molto più profonda e manifesta tutto l’abisso del mistero divino: “Perché sono Dio e non un uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira” (Os 11,9).
Questa è un’affermazione sorprendete e commovente. Con essa è come se si affermasse che Dio non è un Dio apatico, troneggiante al di là dalla miseria del mondo; egli ha un cuore compassionevole, vede la miseria e ascolta il grido dell’uomo. D’altra parte la santità di Dio, cioè il suo essere totalmente diverso rispetto a tutto l’umano, non si manifesta nella sua giusta ira su tutta l’ingiustizia e cattiveria umana, ma nella sua misericordia. Essa lo distingue completamente dagli uomini; esprime la sua sublimità e sovranità, la sua trascendenza, che nessuna scena umana può rappresentare. Dio nella sua assoluta libertà non entra nelle regole della nostra giustizia; lui è al di sopra di tutto ciò che è umanamente calcolabile. La misericordia è lo specchio del suo essere Dio e della sua trascendenza.
Perché Dio agisce così? Risponde lui stesso: Come potrei abbandonarli? “Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore” (Os 11,4). Geremia, probabilmente discepolo di Osea, aggiunge: “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà” (Ger 31,3; cfr. Is 54, s.). Con queste commoventi parole, il profeta indica nel mistero dell’amore di Dio la sorgente della sua elezione e della sua misericordia.
A questo punto della riflessione, è possibile fare un primo riassunto. Dio è un Dio misericordioso perché è compassionevole e ha cuore per i miseri. Non è un Dio apatico, ma nel senso proprio della parola, un Dio “syn-patico”, che soffre (pathein) con (syn) il suo popolo. Di più, Dio nella sua misericordia resiste attivamente al male; non vuole la morte, ma vuole la vita e dà la vita. La misericordia di Dio vince il male con il bene, la morte con la vita. Così il perdono non è solo la sostituzione del danno del male, ma il suo superamento; invece di limitarsi a compensare e sostituire il vecchio ordine, Dio crea un nuovo ordine. Come espressione della Signoria di Dio, la misericordia è una novità umanamente inaspettata e inaspettabile. Così la misericordia veterotestamentaria prepara già il messaggio del Nuovo Testamento.
III. Misericordia nel Nuovo Testamento
Nel Nuovo Testamento Gesù annuncia il vangelo di Dio Padre misericordioso soprattutto con parabole ben note: la meravigliosa parabola del figlio prodigo, che sarà chiamata più esattamente del padre misericordioso. Il figlio ha già ricevuto il patrimonio che gli spetta, e ha sperperato le sue sostanze vivendo da dissoluto. Stretto dal bisogno, parte per ritornare dal padre, con la confessione: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te” (Lc 15,18.21). Il padre, che quando suo figlio era lontano, lo aveva sempre aspettato, gli corre incontro commosso, gli si getta al collo e lo bacia. Lo riveste, gli pone l’anello al dito e i calzari ai piedi, ciò vuol dire, gli restituisce i suoi diritti di figlio, e fa preparare una grande festa (Lc 15,11-32). Perché “ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
La parabola ci dice sulla misericordia di Dio, che essa oltrepassa ogni diritto. Il figlio prodigo aveva già ricevuto e poi perduto i suoi diritti di figlio. Nondimeno Dio non richiede restituzione, non infligge nessuna punizione; anzi lo aspetta, gli va incontro, lo abbraccia e oltre ogni diritto, gli restituisce i diritti di figlio. Il padre non il figlio, fa la restituzione. La sua misericordia non fa a meno della giustizia; all’altro figlio nulla va tolto, ma l’atteggiamento verso il figlio prodigo supera la giustizia meramente umana e va oltre ogni attesa e ogni umana misura. La misericordia di Dio secondo il calcolo umano è la novità di un amore sempre più grande e da paragonare solo al miracolo di una risurrezione a una vita nuova. Questo figlio “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32). In questo senso anche la Lettera agli Efesini descrive la misericordia: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati” (Ef 2,4 s.).
Una seconda parabola ci dice, che la misericordia sovrabbondante di Dio è la misura della misericordia che è richiesta a noi. Secondo le Beatitudini sono i misericordiosi, che troveranno misericordia (Mt 5,7) e la preghiera del Signore ci dice che la nostra disponibilità al perdono è la misura del perdono di Dio (Mt 6,12; cfr. la parabola del debitore non misericordioso [Mt 18,23-35]). Pertanto Gesù dice: “Siate miseri-cordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).
La parabola del Buon Samaritano illustra questa misericordia. Il Samaritano, dai Giudei dell’epoca considerato come un semipagano, era in viaggio, probabilmente aveva da sbrigare i suoi affari, ma vede il moribondo che era incappato nei briganti e ne ha compassione. Benché non avesse obbligo alcuno, si china nel fango della strada, gli fascia le ferite; poi lo porta a una locanda e si prende cura di lui. Il giorno seguente, estrae due denari e li dà all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno” (Lc 10,30-35).
A prima vista la parola “compassione” potrebbe insinuare che la misericordia è solo un atteggiamento emozionale; la parabola però mostra che essa è un atteggiamento attivo, che risponde attivamente e dinamicamente ai bisogni dell’altro; non apre solo il cuore, mette in moto le mani e fa correre le gambe per andargli incontro. Innanzitutto è un opus superogatum. La giustizia è per così dire il minimo che dobbiamo all’altro, mentre la misericordia è il massimo, è una risposta che proviene della generosità di un amore oltre misura.
Con le due parabole Gesù spiega il suo comportamento con i peccatori, che raggiunse il suo apice quando dà la sua vita per tutti noi peccatori (Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20; 1 Cor 11,24; 15,3 ecc.). Sulla croce, il duello fra vita e morte raggiunse il suo epilogo. Lui, chi era innocente, volentieri si è sottomesso alla morte invece di noi e per noi; la sua risurrezione ha vinto la morte. Paolo riassume: Dio lo “ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù” (Rm 3,25 s.). “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2 Cor 5,21; cfr. Gal 3,13).
Oggi molti hanno difficoltà ad accettare questo messaggio della morte vicaria di Gesù per noi, che è fondamentale per il Nuovo Testamento e per tutta la tradizione. Domandano: Come può essere sostituita la libertà e la responsabilità dell’uomo? Questo messaggio diventa comprensibile solo nell’intera prospettiva della Bibbia. Con la morte si spegne ogni possibilità di agire. Pertanto Dio, prima che noi potessimo agire, ha dovuto liberarci alla nostra libertà (Gal 5,1). Così la nostra libertà non ci è tolta dall’azione vicaria di Cristo, anzi di nuovo essa è resa capace di poter agire e accettare, attraverso la fede, ciò che nella sua immensa misericordia, Dio ha fatto per noi, senza di noi, in Gesù Cristo, affinché noi possiamo risuscitare alla vita nuova.
Per mezzo del battesimo, che è il sacramento della fede, siamo resi partecipi della morte di Cristo e viviamo nella speranza di partecipare anche alla risurrezione di Cristo. “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a Cristo nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Tutto il cammino nella libertà cristiana è un processo di superamento del peccato, delle sue conseguenze e delle forze della morte, verso una vita nuova per Dio e per gli altri. In questo senso è una permanente penitenza non per equilibrare il male, ma per vincere il male con il bene tanto più grande in forza della vittoria della vita nella risurrezione di Cristo (cfr. Rm 12,21).
Il perdono non è il nostro merito; nondimeno il perdono misericordioso da parte di Dio è tutt’altro che una grazia a buon mercato e non una liberale generosità, che non prende sul serio il peccato. Anzi siamo comprati a caro prezzo con il Sangue prezioso di Cristo (1 Cor 6,20; 1 Pt 1,19) affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” (Rm 6,6).
Il perdono è il dono della vita nuova e del cuore nuovo già promesso nell’Antico Testamento (Ger 24,7; Ez 11,19; 36,26). Questa nuova vita nel vangelo di Giovanni è equivalente al termine regno di Dio nei vangeli sinottici. In Giovanni la vita nuova è la vita eterna, cioè la vita che non ha più da temere la morte. Essa è la nuova creazione, che Dio ha realizzato attraverso la morte e la risurrezione Gesù Cristo (2 Cor 5,17; Gal 6,5; Ap 21,1; cfr. Is 43,18; 65,17). Questa vita era in Dio da tutta l’eternità (Gv 1,4); il Padre ha la vita in se stesso (Gv 5,26). Così la prima lettera di Giovanni può riassumere tutto il messaggio cristiano con l’affermazione, che noi abbiamo la comunione con la vita, che è presso il Padre (1 Gv 1,2 s)
Pertanto, il perdono come dono della vita nuova ci rende partecipi della vita di Dio. In termini dogmatici: La vita nuova non è solo una gratia creata, ma la gratia increata cioè l’auto-donazione di Dio a noi nello Spirito e la nostra partecipazione alla natura divina (2 Pt 1,4). La teologia orientale parla della theiosis, la divinizzazione; la tradizione latina parla spesso dell’inabitazione personale dello Spirito santo (cfr. Gv 14,23).
Poiché in Gesù Cristo tutto è ricostituito, abbiamo in Lui la pace (Rm 5,1; Ef 2,14; Col 1,20) e dobbiamo diventare costruttori di pace (Mt 5,9). La preghiera del Signore ci insegna che il nostro perdono è la misura del perdono di Dio (Mt 6,12). “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14 s). La pace escatologica non è una sorta di coperta distesa su tutta l’ingiustizia del mondo. Il perdono non si esercita all’insaputa delle vittime, che hanno sofferto l’ingiustizia, ma anche attraverso il loro perdono per il colpevole. La vita nuova nella giustizia si realizza come riconciliazione in forme d’interazione sociale, di perdono, di solidarietà, d’impegno per la pace. In questo senso il Concilio Vaticano II dice: “Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo però dalla Rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia” (Gaudium et spes, 39).
IV. Prospettive sistematiche
La Bibbia non è un manuale sistematico teologico e nemmeno un distributore automatico di risposte. La Bibbia ci dà da pensare, da meditare e ci spinge anche a fare. La Chiesa, così come ogni cristiano, devono sempre lasciarsi sorprendere dalla novità della misericordia di Dio. Mai si vedrà la fine di questo processo di riflessione e di rinnovamento della prassi, per realizzare la giustizia nella misericordia. La Chiesa è sempre da riformare e da rinnovare (Lumen gentium, 8; Unitatis redintegratio, 4).
Si vuole anche un rinnovamento del pensamento teologico. La questione del rapporto tra giustizia e misericordia è questione vitale, da cui dipende il destino della tradizione latina. Essa è rimasta ampiamente prigioniera dell’idea della giustizia commutativa e della redenzione come compensazione. L’idea di compensazione si trova in Tertulliano, Cipriano, Agostino, Anselmo di Canterbury. Non possiamo entrare nei dettagli dell’interpretazione soprattutto dell’interpretazione controversa di Anselmo e della sua teoria della soddisfazione. In questo contesto, basta dire che l’idea della misericordia è stata marginalizzata nella teologia. Nella teologia morale prevaleva spesso un legalismo, e nella prassi pastorale il messaggio di un Dio severo e punitivo.
La testimonianza di molti grandi santi, per esempio santa Caterina di Siena, santa Teresa di Lisieux e più recentemente suor Faustina Kowalska, è assai migliore del mainstream della teologia neoscolastica, e la fiducia dei semplici cristiani nella misericordia di Dio non è mai venuta meno. Si pensi alla devozione del cuore di Gesù, interpretata magistralmente e approfondita con la ricca tradizione patristica nella enciclica Haurietis aqua (1956). Spesso però l’aspetto misericordioso era rappresentato più dalla Madonna, la Mater misericordiae (Salve Regina).
Considerando tale tradizione si comprende meglio come il messaggio di Papa Francesco, che mette la misericordia al centro del suo pontificato, d’una parte sia una vera svolta, per molti anche una provocazione, ma d’altra parte è anche un recupero della tradizione biblica e dell’autentica devozione cristiana, cioè del sensus fidelium. Lui stesso parla di una rivoluzione non come una rottura, ma di una rivoluzione dell’amore e della tenerezza. Questa svolta era stata già preparata da Papa Giovanni XXIII che nel suo memorabile discorso d’apertura del Concilio Vaticano II disse che oggi la Chiesa preferisce la medicina della misericordia all’arma della severità. Papa Paolo VI nel suo ultimo discorso del Concilio disse che la spiritualità del Concilio è quella del Buon Samaritano. Si questa base Papa Giovanni Paolo II ha pubblicato la sua seconda enciclica Dives in misericordia (1980). Così il messaggio di Papa Francesco e la Bolla Misericordiae vultus stanno perfettamente nella tradizione del Concilio e di suoi predecessori e l’Anno santo della misericordia è un passo importante nel processo di recezione del Concilio Vaticano II come i due Papi conciliari, Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI l’avevano interpretato.
Tutto questo ci spinge a una riflessione teologica approfondita della misericordia. Un primo passo è la riscoperta di elementi che esprimono quest’idea della misericordia nella tradizione latina, e che in un certo senso corrispondono alla tradizione orientale. In primo luogo si pensi all’idea dell’epikeia, tanto importante nella teologia di San Tomaso d’Aquino e nella tradizione canonista medievale, e che per alcuni aspetti corrisponde all’idea ortodossa dell’oikonomia. A questo proposito però non voglio entrare nei problemi canonistici e della prassi pastorale di situazioni difficili e complesse che saranno discusse dal sinodo prossimo, ma voglio concludere con tre tesi sistematiche sulla scia di Tomaso d’Aquino.
1. Tomaso ha discusso il problema fondamentale del rapporto fra misericordia e giustizia di Dio. Nella Summa theologiae argomenta che Dio, a causa della sua sovranità, nel suo agire ad extra, non è legato a nessuna legge di giustizia umana, ma solo a se stesso e al suo essere, che è amore (1 Gv 4,8.16). Poiché Dio è amore, non può agire altrimenti che con misericordia, la quale ha la priorità rispetto alla giustizia e ne costituisce addirittura la sua radice (S.th. I, 21, 1 -4). Le opere di misericordia di Dio ci permettono di vedere, o detto altrimenti: ci fanno rispecchiare il cuore di Dio. La misericordia è il primo attributo operativo di Dio e lo specchio del suo mistero ascondito. Questa comprensione deve orientarci a un’ontologia e una teologia dell’amore.
2. La misericordia è la fedeltà (emet) di Dio a se stesso e alla sua alleanza, essa esprime l’identità di Dio con se stesso nel suo agire ad extra. Pertanto essa è anche l’espressione dell’identità cristiana e il marchio cristiano, la summa e la massima dalle virtù cristiane, (S.th. II/II, 30, 4) e deve essere – come ha detto Papa Francesco – l’architrave, cioè il pilastro principale della prassi della Chiesa e il leitmotiv della sua dottrina sociale. La Chiesa deve essere la casa di una madre misericordiosa, con le porte aperte chiunque chieda misericordia e ne abbia bisogno.
3. Il concetto di emet significa nella Bibbia anche verità. La verità nelle Bibbia non è una affermazione teorica, ma verità-fedeltà. Pertanto la misericordia come emet è la verità di Dio e su Dio. È dunque del tutto assurdo opporre la misericordia alla verità. La verità cristiana è la misericordiosa auto-manifestazione di Dio in parole e opere; e nella sua pienezza la verità è Gesù Cristo in persona (Gv 14,6). Lui è la rivelazione definitiva della misericordia di Dio Padre per la nostra salvezza. Lui con la sua misericordia è la rivelazione definitiva della verità-fedeltà di Dio.
In conclusione: Se la misericordia è l’auto-rivelazione di Dio per eccellenza e la somma virtù del cristiano, essa non elimina le altre verità e gli altri comandamenti come alcuni temono. Anzi, bisogna considerare la misericordia come somma e principio ermeneutico di tutta la dottrina e di tutta la prassi cristiana e la salus animarum come legge suprema.
In questo senso la misericordia richiede anche un nuovo impulso ecumenico. Le chiese in oriente e occidente hanno ricevuto la loro eredità apostolica comune fin dalle origini in forme e modi diversi; questa diversità, oltre a cause esterne, per mancanza di comprensione e carità diede adito alla separazione (Unitatis redintegratio, 14). Le ferite della separazione sono ferite al corpo di Cristo, che solo la medicina del perdono e della misericordia può guarire. Siamo testimoni di una persecuzione cristiana e di una eliminazione del cristianesimo in paesi di antichissima tradizione cristiana. I cristiani non sono perseguitati perché sono ortodossi, cattolici o protestanti, sono perseguitati perché sono cristiani. Papa Francesco parla di un ecumenismo del sangue. Possiamo allora formulare la frase di Tertulliano: Sanguis christianorum semen christianorum (Apol.50,13) in un senso aggiornato: Sanguis communis christianorum semen unitatis christianorum. Speriamo perciò che l’Anno della misericordia apra una nuova epoca ecumenica della misericordia, in cui possiamo lasciare dietro di noi gli errori, i peccati e le ferite del passato e aprirci con misericordia a uno slancio rinnovato e un nuovo futuro comune.