I poveri nostri maestri

Gesù ci rivela un’unità grande tra la contemplazione di Dio e la relazione personale con quelli che sono feriti e rifiutati. È forse il grande segreto di Gesù: chiamare i suoi discepoli non soltanto a servire i poveri, ma scoprirlo realmente presente in loro e, attraverso di loro, a incontrare il Padre. Gesù ci dice di essere nascosto nel povero; di essere lui il povero. Ecco perché, con la potenza del suo Spirito, il più piccolo gesto d’amore verso la persona più povera umanamente o materialmente è un gesto di amore verso di lui. Gesù è colui che ha fame e sete, colui che è prigioniero, straniero, nudo, senza rifugio, malato, morente, oppresso, umiliato. Vivere con il povero è vivere con Gesù; vivere con Gesù è vivere con il povero. “Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato” (Luca 9,48). Quelli che vivono con Gesù nei poveri, perciò, non sono chiamati soltanto a fare delle cose per loro, né a guardarli come oggetti della loro carità, ma piuttosto come fonti di vita e di comunione. Il loro scopo non è solamente quello di liberare i poveri, ma anche quello di essere liberati da loro; non soltanto di guarire le loro ferite, ma anche di essere guariti da loro; non solo di evangelizzarli, ma anche di essere evangelizzato da loro. Quelli che si avvicinano al povero, al piccolo, al bisognoso inizialmente lo fanno per un desiderio di generosità, per aiutarlo e soccorrerlo; si credono dei salvatori e spesso si mettono su un piedistallo. Ma toccando il povero, raggiungendolo, stabilendo con lui una relazione d’amore, di amicizia, si svela il mistero. Nel cuore dell’insicurezza del povero c’è una presenza di Gesù ... I poveri ci evangelizzano. All’Arca (la comunità di Jean Vanier) gli assistenti scoprono che sono chiamati ad annunciare la buona novella ai poveri e a rivelare loro l’amore immenso che Dio ha per loro. Aiutano veramente un certo numero di persone a varcare la soglia di una vita di fede. Ma una volta varcata la soglia, sono le persone portatrici di handicap che portano più avanti nella fede gli assistenti: esse diventano i nostri maestri (Jean Vanier, La comunità: luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano 2000, pp. 115-116).

Nel bisognoso c’è Cristo

Le parole più chiare, definitive, pronunciate da Gesù sulla relazione del cristiano con ogni bisognoso, sono quelle che concludono il discorso escatologico secondo Matteo ... Nel bisognoso c’è Cristo, e chi serve il bisognoso serve Cristo, ne sia consapevole o meno; nell’ultimo giorno saremo giudicati solo sulla relazione con ogni bisognoso che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino. “I poveri sono il sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli). Ciò significa che quando noi vediamo una persona oppressa dalla povertà e dal bisogno, dovremo immediatamente interpretare questa situazione come frutto dell’ingiustizia di cui anche noi siamo responsabili, evitando di scaricare la colpa sugli altri. E qui mi si consenta un’attualizzazione; Non è possibile addossare genericamente la responsabilità della povertà che tocca i due terzi dell’umanità all’occidente ricco e sazio: non siamo anche noi inseriti in questo contesto socio-economico, di cui godiamo i benefici? Allo stesso modo, dove c’è un fratello o una sorella nel bisogno, la prima reazione deve essere quella di riconoscere la propria responsabilità in merito a questa situazione di ingiustizia. Da tale presa di coscienza scaturirà poi la disponibilità a farsi prossimi a chi soffre per lottare contro il bisogno che lo angustia; e quando avremo operato per eliminare il bisogno, anzi mentre operiamo, ecco che il povero diventa per noi sacramento di Cristo, anche se forse lo scopriremo solo alla fine dei tempi (Enzo Bianchi, “Nessuno tra loro era bisognoso”, Qiqajon, Bose 2005, pp. 12-14).

Non passare oltre

 Luca 10,25-37

Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova “Maestro; che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi?”; costui rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso”. E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”.
Ma quegli volendo giustificarsi disse a Gesù: “Echi è il mio prossimo?”. E Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo e vistolo passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui, e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”.
Quegli rispose: “chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa lo stesso”.

Rispettare l’uomo nella sua indegnità

Lc 10, 25-37

Il samaritano che si fa carico del ferito sul bordo della via, lo fa perché rispetta in lui i suoi titoli inerenti alla ragione, alla libera volontà, o alla memoria, quando lo sventurato giace prostrato, silenzioso, gemente, esposto alla violenza degli uomini che l’hanno lasciato come morto? Il samaritano non lo ha rispettato nemmeno in quanto membro della sua comunità religiosa o per una solidarietà obbligante in nome di principi religiosi trascendenti, ma semplicemente perché, ridotto a niente, quello sconosciuto “senza qualità” si affidava alla sua mansuetudine, alla sua attenzione vigilante, alla compassione umana. Lo ha preso a carico proprio in nome di un’umanità vinta, abbandonata tra le sue mani, avendo perso ogni forma umana. È il samaritano a dar prova di dignità, non per aver visto regnare sul ferito la Legge morale o la Ragione trionfante, non per aver individuato un soggetto morale autonomo e “maggiorenne”, ma in quanto quelle ferite hanno destato in lui il rispetto di fronte a un’umanità sfigurata; È stato lui a elevarsi alla dignità umana non tirando dritto sul suo cammino, a differenza del sacerdote o del levita, ma assumendo concretamente ed effettivamente il fardello di un’umanità avvilita sprovvista di tutti i tratti caratteristici di un’eminente dignità.


La parabola apre le prospettive di una morale della solidarietà che fonda il rispetto della dignità nella nostra comune indegnità, in nome della nostra umanità debole o degradata, sprovvista dei tratti onorevoli che dovrebbero “distinguerla” in base a qualità specifiche.
Noi ci onoriamo, come fa il samaritano, quando onoriamo nell’altro la sua umanità spoglia, anche quando questa umanità non può esibire i titoli d’un’umanità “antropologicamente corretta” o non presenta più le caratteristiche che costituiscono agli occhi del razionalista “la specificità dell’essere umano”. La dignità non è dunque un attributo peculiare della persona nella sua singolarità; è una relazione, o piuttosto si manifesta nel gesto con cui ci rapportiamo all’altro per considerarlo come uomo, ugualmente uomo, anche se l’apparenza denuncia una non-umanità o anche un’inumanità. noi ci onoriamo rispettando la persona umana nel criminale o nel pedofilo, non identificandoli con il loro crimine o la loro debolezza; e ci onoriamo allo stesso modo non identificando il morente con la sua sofferenza, e cercando di aiutarlo ad assumere la sua vita in una relazione di solidarietà e di assistenza che lo aiuti ad attraversare questo momento decisivo.


Occorre osservare che questa morale della reciprocità e della solidarietà non ha nulla a che vedere con un amorale o una politica della compassione né con qualsiasi forma di “miserabilismo”. si deve rimanere in guardia contro la promozione del tutto moderna della commiserazione, legata al rifiuto della sofferenza, come se questa dovesse essere in ogni caso respinta al di fuori delle frontiere dell’umanità, o come se il rifiuto della sofferenza divenisse il nuovo criterio della morale. La reciprocità si identifica con questa presa in carico della nostra comune umanità, in quanto ognuno sa bene di non esistere senza questa relazione con l’altro, e che noi tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri, e a tutti i livelli dell’esistenza, in maniera particolare nei nostri momenti di debolezza, di solitudine, di abbandono e di paura di fronte alla sofferenza e alla morte.
Tale reciprocità assume la nostra comune umanità ma non prescrive la giusta condotta, come nella parabola non si canonizza la condotta del samaritano che avrebbe potuto fare altre scelte concrete. Essa sollecita un’intelligenza delle situazioni e una sensibilità per individuare il comportamento giusto ...

Il samaritano non agisce per osservanza religiosa , o per fedeltà a una regola eteronoma di origine trascendente; la grande forza del testo evangelico consiste giustamente nel presentare il gesto come conseguenza logica di un dovere di umanità, in cui il samaritano manifesta la sua dignità di persona umana, e al tempo stesso riconosce nel ferito senza voce un’uguale dignità umana (Paul Valadier, La persona nella sua indegnità, in Concilium 2/2003, pp. 85-87)


 

L’appello che l’altro è

 Lc 10, 25-37

 Il malcapitato della parabola lucana, più che metafora delle categorie sociali bisognose, è il paradigma dell’essere umano in quanto tale che, nella sua realtà costitutiva e più profonda, è essere di bisogno che grida e attende aiuto. Egli è il rappresentante dell’alterità nuda e radicale, dove l’altro si erge di fronte all’io non più come “corpo forma” ma “de-forme” che, nel suo essere di bisogno, è messa in discussione dell’io convertendolo da desiderante a responsabile. Egli è il paradigma del volto che si sottrae al dominio dell’io paralizzandone i poteri e giudicandolo.
Ma la parabola del samaritano custodisce un senso ancora più abissale: che dal silenzio del corpo di quel malcapitato, di cui non si consoce il nome e del quale non si vede il volto e neppure si dice che gemesse e invocasse, si innalza una voce che, nella sua assolutezza, interrompe il cammino dei passanti e li convoca alla responsabilità indeclinabile: rispondere positivamente a quel grido assumendolo nella compassione oppure negarvisi restando avvinghiati al proprio io. Voce assoluta e incondizionata che, acconsentita come fa il samaritano, introduce nella “vita eterna”, l’orizzonte del Senso; mentre rifiutata, come fanno il sacerdote e il levita, esclude dallo spazio della vita.
È qui dove la parabola del samaritano svela il suo significato ultimo e sconvolgente: il luogo originario dove Dio mi parla e mi incontra convocandomi alla responsabilità e giudicandomi è l’altro nel suo essere di bisogno, l’alterità dell’altro nella sua irriducibilità al desiderio dell’io e dei suoi progetti (Carmine di Sante, Responsabilità, Edizioni Lavoro, Roma 1996, pp. 91-93).