La Parola è in Dio, la Parola è Dio
5 gennaio 2020
Gv 1,1-18
II domenica dopo Natale
di Luciano Manicardi
1 In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2Egli era, in principio, presso Dio:
3tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l'hanno vinta.
6Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
7Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
9Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
11Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
12A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
15Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
16Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
Nella nostra contemplazione dell’incarnazione, la liturgia della II domenica dopo Natale ci fa sostare sul mistero della Parola. “In principio era la Parola, tutto è stato fatto per mezzo di essa”. Il Dio biblico non è il Dio che è, ma il Dio che parla. Esso è evocato in termini di relazione, non di essenza. La Parola è in Dio, la Parola è Dio (Gv 1,1). Questo carattere originario della Parola di Dio dice che Dio è padre: l’incontro umano con lui non sarà fusionale, ma mediato da una parola, traversato da una distanza, un “tra”, e avverrà anzitutto con l’ascolto. Richiederà perciò lo sviluppo dell’interiorità e della libertà dell’uomo, della sua soggettività e del senso dell’alterità, e si configurerà come comunione e non confusione, come relazione e non immedesimazione. Il Dio che parla è il Dio che si comunica all’uomo. E per manifestare il mistero di Dio nel suo rapportarsi all’uomo, Giovanni eleva il suo linguaggio e ricorre a un poema di andamento innico, suddivisibile in strofe, una vera dossologia. Il prologo del IV Vangelo esprime il mistero del Dio che cerca comunione con l’uomo ed entra in relazione con lui, con il linguaggio evocativo, simbolico e sintetico della poesia, della narrazione poetica. Dietro quel mistero teologico, infatti, vi è il mistero dell’amore.
Dicendo che la Parola si è fatta carne, si afferma che il culmine della rivelazione di Dio si manifesta come un nuovo velamento: la gloria di Dio appare nella carne umana, nel corpo di Gesù di Nazaret. La luce della gloria di Dio non è la luce abbagliante di una verità che acceca, ma la luce “visibile”, che può essere vista dagli umani proprio grazie al corpo umano che la protegge e la manifesta. L’opacità della carne è la condizione necessaria per “vedere la gloria di Dio” (“La Parola si fece carne … e noi abbiamo contemplato la sua gloria”: Gv 1,14). O forse, la luce della carne umana – svelata pienamente da Gesù di Nazaret – è la condizione per accedere al mistero di Dio. Lo stesso Lógos, “Parola” o “Verbo”, che rivela Dio, non è parola monolitica che si impone con il suo peso schiacciante e la sua autorità auto-evidente, ma parola dialogica che invita e offre, che apre una via, che indica, che fa segno. Se il Lógos era in Dio e presso Dio, in legame eterno e vitale con Dio, tutt’uno con lui, allora Dio è dialogico in se stesso: rivelandosi, egli chiama l’essere umano al dialogo. Parlandogli, egli sollecita la sua risposta, la preghiera. Svelandosi come Parola, egli suscita, invece di annichilire, la parola dell’uomo. Dio abbisogna della parola umana. Il corpo e la parola di Gesù sono i luoghi privilegiati della manifestazione di Dio. Il corpo e la parola umani sono i luoghi in cui l’uomo risponde alla comunicazione di Dio.
La comunicazione di Dio all’uomo avviene attraverso la Parola che Dio pronuncia. Dunque “la Parola che Dio parla” dice tutto di Dio: dire è sempre anche dirsi, e diviene anche darsi. In ogni Parola di Dio il credente incontra colui che egli veramente cerca, ovvero, Colui che parla, Dio. La preghiera viene così istituita come ascolto che, accogliendo il dono della Parola di Dio, incontra il Donatore. Una splendida meditazione orante di Gregorio di Narek dice: “Non è dei doni, ma del Donatore, che ho sempre la nostalgia”.
Attraverso la Parola “tutto è stato fatto”, dice il prologo giovanneo. La Parola è luogo di apparizione dello spazio; il mondo esiste perché parlato. Ora, questa Parola “si è fatta carne”. Se la nostra carne, dice la Genesi, viene dall’adamah, cioè dalla terra, in essa, in noi, dentro di noi, vi è la parola che in verità ci chiama e vorrebbe agire per noi come memoria della nostra origine ogni volta che parliamo. Ma noi spesso ce ne ergiamo a padroni e la usiamo, la riduciamo a strumento e poniamo noi stessi all’origine di tutto e come fine di tutto. E normalmente la usiamo per usare gli altri. Invisibile eppure realissima, presente in noi, davanti a noi, tesa tra noi e gli altri come un ponte, in verità essa continua ancora oggi a essere all’in-principio di tutto. Di ogni creazione buona e bella, ma anche di ogni ritorno al caos e alla tenebra.
“La Parola era luce e vita”. Ecco la Parola che si è resa visibile e che ha assunto il volto di Gesù di Nazaret: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la vita” (Gv 14,6), dirà Gesù. E allora la nostra contemplazione della Parola non può limitarsi ad affermare che Gesù è la Parola fatta carne, ma deve completarsi con l’ascolto della pratica di parola di Gesù di Nazaret. Deve cioè completarsi con l’annotazione stupita dei soldati che si rifiutarono di arrestare Gesù affermando: “Nessun uomo ha mai parlato così” (Gv 7,46). Mettersi alla sequela di Gesù significa rinascere dell’alto, e chi nasce deve imparare a parlare. Perché nella parola è la possibilità di dare vita, ma anche morte, di illuminare, di chiarificare, ma anche di gettare nella confusione e nel caos, nell’indistinto. Nella parola è il potere di dare vita creando fiducia, ma anche di gettare nello smarrimento seminando sfiducia, in essa è il potere di creare comunione e relazione o di distruggere la comunione e minare la relazione. L’autore della lettera di Giacomo era scioccato dalla constatazione del potere malefico del parlare che egli vedeva nelle comunità cristiane e dalla doppiezza a cui si trovava posto di fronte: “con la bocca benediciamo il Signore e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio” (Gc 3,9). Il Cristo che nell’incarnazione ci insegna a vivere (cf. Tt 2,12), ci insegna anche a parlare.
O meglio, ci chiede l’umiltà di imparare a parlare. Di imparare a bene-dire, a fare del nostro dire una fonte di luce e di vita. A fare del nostro dire la fonte del bene dell’altro, del suo bene, non sempre e solo della nostra gratificazione. Perché dire è sempre anche dare e la Scrittura ci ricorda che le parole sono gesti, azioni. Il che significa che ogni nostra parola, per essere dono, per essere luminosa e vitale deve essere anche ascolto. E la parola deve essere ascolto contemporaneamente, nello stesso momento in cui è pronunciata. La vera parola ascolta parlando e il vero ascolto parla ascoltando. Rispettando cioè radicalmente l’altro a cui si parla, la parola che viene pronunciata, noi stessi che la pronunciamo e il Signore che ha manifestato se stesso con la parola. Altrimenti si cade nella violenza ed è violenta ogni azione e parola in cui agiamo e parliamo come se fossimo soli ad agire e a parlare: come se il resto dell’universo fosse là soltanto per ricevere la nostra azione e la nostra parola. Cioè per subirla. Gesù, Parola fatta carne, ha posto la propria carne, la propria vita a servizio della Parola, e ne ha pagato il prezzo. Al termine della sua vita egli potrà dire: “Io ho parlato al mondo apertamente, con parresía” (Gv 18,20), ma l’audacia e il rigore della verità, il rifiuto della menzogna, lo porteranno a divenire martire della Parola.
Ma anche sulla croce, “sulla sua bocca non fu trovato inganno” (1Pt 2,22). A fronte di chi uccide con le parole, vi è chi muore per l’adesione rigorosa e radicale alla Parola, fino a morirne. Ma anche allora, alla fine, la Parola è all’in-principio, e la sua luce e la sua vita diventano resurrezione. La passione, morte e resurrezione di Gesù è anche passione, morte e resurrezione della Parola.
Quella Parola che la Scrittura definisce “onnipotente” (Sap 18,15), per mezzo della quale “tutto è stato fatto” (Gv 1,3), in realtà non annienta la tenebra, ma vi scende e vi convive: non diviene luce abbagliante, anzi, rischia di essere spenta da chi non la accoglie (cf. Gv 1,5.10-11). Questa Parola caratterizza l’agire divino nella creazione e nella storia come agire mite, come agire che non elimina il negativo e il lato tenebroso dell’esistenza e della storia, ma che accetta di abitarvi: la sua forza è nel non farsi sopraffare, nel continuare a brillare e a indicare la strada anche in mezzo alle tenebre.
L’incarnazione indica che la via di Dio è la mitezza. Quella mitezza che contrassegna l’agire e il vivere di Gesù tra gli uomini. Mitezza che è capacità di essere più forti della propria forza e di mettere dei limiti alla propria forza, a sé stessi, per lasciare spazio agli altri.
Scaturita dall’amore di Dio, l’incarnazione è movimento generante e datore di vita che suscita la figliolanza divina di coloro che accolgono con fede la Parola fatta carne (“A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”: Gv 1,12). Di fronte al Dio che è “Colui che parla”, che manifesta il suo volto in Gesù Cristo, Parola definitiva di Dio, e che accompagna il suo rivelarsi con il Soffio che abita la Parola stessa, l’uomo è situato nella postura di “colui che ascolta”. L’origine della vita spirituale del cristiano è in questo atto basilare e sempre da rinnovare che è l’ascolto della Parola di Dio, cioè della sua volontà, del suo cuore. Proprio come, all’inizio della vita umana, la percezione del battito del cuore materno è per il feto il momento sconvolgente in cui esso viene strappato al silenzio primordiale per essere consegnato al silenzio alternato con rumori e suoni. “È l’udito il primo cordone ombelicale comunicativo della nostra esistenza; grazie all’udito ci separiamo dalla fusione indistinta con la carne del mondo e insieme ci teniamo pur sempre agganciati a essa” (Carlo Sini).