Dallo stupore allo scandalo

Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)
Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)

7 luglio 2024

XIV domenica nell’anno
Marco 6,1-6
di Sabino Chialà

1 In quel tempo Gesù partì di lì e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. 2Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? 3Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. 4Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». 5E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. 6aE si meravigliava della loro incredulità. 6bGesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando.


La pericope evangelica di questa domenica segue immediatamente la guarigione della donna emorroissa e della bambina richiamata in vita da Gesù. Lì la parola del Maestro aveva agito efficacemente grazie alla fede di Giairo (5,36), il padre della bambina, e a quella della donna che aveva osato toccarne il mantello (5,34). Qui invece domina l’incredulità, la “non-fede (apistía)” termine con il quale si conclude il racconto: “E si meravigliava della loro incredulità” (v. 6).

Vi è come un continuo alternarsi di fede e non-fede. I discepoli sulla barca avevano temuto e Gesù li aveva rimproverati per la loro mancanza di fede (4,40), le due donne erano state guarite grazie alla fede, ora torna nuovamente a gravare il peso paralizzante dell’incredulità. Da una parte Gesù mostra la via per la quale la Parola agisce efficacemente, dall’altra è come se ricordasse che essa non agisce magicamente, ma richiede docilità e accoglienza, mai scontate e sempre da ricercare.

Gesù si era già confrontato con il rifiuto, da parte dei capi religiosi, al termine di una guarigione da lui operata in sinagoga in giorno di sabato. La scena si era conclusa con un proposito omicida: “E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (3,6). Ora è la volta di compatrioti e familiari. Soprattutto questi ultimi sono particolarmente presenti in questa sezione del vangelo, che qui giunge a conclusione. Erano comparsi al capitolo terzo, laddove erano usciti “per andare a prenderlo; dicevano infatti: ‘È fuori di sé’” (3,21); e poco oltre, mentre predica, tentano di nuovo di ricondurlo a casa (3,31). Qui il quadro si allarga, e ai parenti si aggiungono i concittadini.

I capi religiosi cercano di ucciderlo, i familiari lo ritengono pazzo, i concittadini lo disprezzano. Eppure quel profeta parlava in modo efficace. Le folle se n’erano accorte fin da quella prima volta in cui - anche allora in una sinagoga - aveva aperto bocca suscitando il loro stupore: “Erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (1,22). E poco oltre erano nuovamente rimasti stupiti perché, nella medesima sinagoga, aveva liberato un uomo da uno spirito impuro” (1,23-27).

Gesù era poi tornato in sinagoga e vi aveva guarito un uomo dalla mano paralizzata (3,1-5), suscitando l’intento omicida dei capi religiosi. Ora è ancora in una sinagoga, in giorno di sabato, e insegna: “Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga” (v. 2), questa volta, nella sua patria.

La prima reazione dell’uditorio è ancora di stupore: “Molti, ascoltando, si stupivano” (v. 2), come all’inizio della sua predicazione al capitolo primo. Ma tale effetto si trasforma velocemente - e sorprendentemente! – in scandalo, come dice Marco a brevissima distanza di tempo: “E si scandalizzavano di lui” (v. 3). Due azioni contrastanti – si stupivano e si scandalizzavano – ambedue espresse all’imperfetto, forma verbale che indica un’azione continuativa: come se lo stupore sfumasse nello scandalo, senza soluzione di continuità.

Una reazione difficile da comprendere anche per Gesù che – dice l’evangelista a conclusione della scena - si meravigliava: “E si meravigliava della loro incredulità” (v. 6), altra azione espressa con un verbo all’imperfetto. Matteo e Luca, rinarrando l’episodio, tralasceranno questo tratto che forse ritengono troppo umano.

Ma com’è possibile passare dallo stupore allo scandalo? Cosa è accaduto? A illustrare il processo si susseguono con un ritmo martellante cinque domande. Le prime tre domande restano aperte: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?” (v. 2). Fin qui vi è lo stupore per la sapienza e i prodigi di cui Gesù dà prova. Fin qui la reazione è la stessa di coloro che avevano udito e visto Gesù all’opera nella prima sinagoga, al capitolo primo.

A queste domande ne seguono però altre due, decisive in ordine alla svolta: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?” (v. 3). Dall’ammirazione per le parole e le opere di Gesù, si passa ad apprezzamenti in cui si fa spazio un certo disprezzo. Si comincia con il mestiere, che Marco attribuisce a Gesù stesso, definito “il falegname” e non, come in Matteo il “figlio del falegname” (Mt 13,55). Quindi vi è l’accenno alla madre, mentre si tace il più usuale patronimico, tratto che da alcuni esegeti è interpretato come un’insinuazione malevola circa una paternità incerta.

Al di là dei singoli elementi, ciò che trasforma lo stupore in scandalo è l’umanità di Gesù, l’immediatezza, l’accessibilità e la contiguità del Maestro alle loro storie. Anziché essere un motivo di gioia, questo diventa occasione di scandalo. La grandezza della sua parola e degli atti terapeutici da lui compiuti svanisce perché Gesù non è un superuomo, ma un uomo in cui si rivela la potenza di Dio.

Quello dei compatrioti di Gesù è lo scandalo della fede cristiana; lo scandalo dell’incarnazione, cioè di un Dio fattosi uomo, di un Dio che salva dalla croce. In fondo, attraverso queste prime contraddizioni che Gesù incontra e particolarmente in questa che conclude una sezione del vangelo, è l’immagine della croce che già comincia a profilarsi.

L’umanità di Gesù, l’ordinarietà del suo lavoro e della sua famiglia, sono di scandalo. Eppure è lì che siamo chiamati a riconoscere il Dio cristiano: nell’ordinarietà di una umanità che la fede sa aprire a un’altra dimensione, fino a vedere in quell’esistenza profondamente umana la narrazione dell’amore del Padre per l’umanità. Il Dio cristiano salva l’umanità condividendone l’ordinarietà, e così dando senso alla nostra ordinarietà. Ma quanto è difficile, ancora per noi, accettare l’umanità di Dio, la sua incarnazione!

La reazione di Gesù è di pacata meraviglia: riprende un adagio noto, articolandolo secondo tre dimensioni che vanno dal generale al particolare, dalla patria alla casa: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (v. 4).

La scena giunge così al suo termine con quella che è parsa ad alcuni esegeti come una contraddizione. Da una parte Gesù che appare impedito nella sua azione dalla non fede dei presenti: “E lì non poteva compiere nessun prodigio” (v. 5); è infatti la fede ad aprire l’accesso alla potenza risanatrice della sua Parola. Dall’altra Gesù opera; il testo infatti continua: “Ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì” (v. 5).

Si tratta di una contraddizione o siamo posti dinanzi alla complessità dell’azione della Parola, così come è stata, proprio da Marco, illustrata con le tre parabole del seme? Il Regno ha bisogno di un terreno che si renda accogliente tramite la fede; ma è vero anche che il seme ha in sé una potenza di vita che supera e stupisce, anche quando appare piccolo come un granellino di senape.

Gesù non può operare come vorrebbe, è impedito… ma non del tutto. Si meraviglia della loro incredulità, ma non si lascia paralizzare: guarisce “pochi malati” e soprattutto, continua a camminare, come dice l’evangelista nel brano immediatamente successivo e anziché recedere dalla sua missione, proprio nel momento della contraddizione si associa i Dodici perché vadano anche loro ad annunciare il Regno (6,7).


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