16 aprile 2017
Omelia della Veglia paquale
di LUCIANO MANICARDI
Mt 28,1-10
1 Il quel giorno dopo il sabato, all'alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l'altra Maria andarono a visitare la tomba. 2 Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. 3 Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. 4 Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. 5 L'angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. 6 Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. 7 Presto, andate a dire ai suoi discepoli: «È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete». Ecco, io ve l'ho detto». 8 Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annuncio ai suoi discepoli. 9 Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!». Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. 10 Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno».
“Non è qui, è risorto! Non abbiate paura!”. “È la Pasqua, è la Pasqua del Signore!”. Queste parole del vangelo e della liturgia illuminano questa notte e ci chiedono di accedere alla gioia. Ci invitano ad entrare nella gioia quale che sia il nostro sentire, il nostro umore, quale che sia la nostra situazione personale, il dolore che ci attanaglia, la tristezza che ci opprime, l’amarezza che ci incupisce, la preoccupazione che ci assilla, l’incertezza che ci rende smarriti, il peccato che ci umilia. Se il Risorto non riesce a far breccia nemmeno sulle nostre emozioni e sul nostro sentire, come possiamo essere credibili quando diciamo di avere fede in lui? “Siate nella gioia” (Chairete: Mt 28,9) dice il Risorto alle donne, e lo dice anche a noi.
E la gioia è il sigillo del battezzato, del con-risorto con Cristo, di colui che accorda più potere alla parola del vangelo che alla propria debolezza e che fa regnare la pace del Risorto sulla propria personale angoscia. Non è una gioia psichica, ma una gioia che nasce dalla fede, è gioia come certezza che la nostra vita è posta nelle mani del Signore e dunque non c’è più motivo di paura: chi ci potrà separare dall’amore del Signore?, scrive Paolo (Rm 8,35); chi vi potrà fare del male? dice la I lettera di Pietro (3,13)?
È la gioia di chi è davvero povero e dunque trova un grande coraggio, il coraggio di chi non ha niente da difendere, avendo già gettato tutto se stesso nelle mani del Signore. È la gioia che ci porta a relativizzare le piccole situazioni personali e relazionali che ogni giorno, per il nostro poco discernimento, noi ingigantiamo portandole così ad appesantire ed estenuare il nostro vivere comunitario.
Celebrare in verità la Pasqua è conoscere il cambiamento della propria persona, è conoscere una resurrezione anche nelle nostre vite. E il vangelo ci mostra che la pasqua del Signore diventa anche la pasqua delle donne che vanno al sepolcro, il loro passaggio. Cercano il Crocifisso e incontrano il Risorto, vanno per vedere la tomba (videre sepulcrum) e ascoltano l’annuncio della resurrezione, vanno al sepolcro e tornano come annunciatrici del Risorto. Vanno nel silenzio e si vedono dare la parola dal Risorto, si vedono autorizzare alla parola, anzi, sono chiamate a obbedire al comando del Risorto che dice loro, che sono le sue sorelle, di andare e proclamare il felice annuncio ai suoi fratelli. “Non abbiate paura; andate, annunciate ai miei fratelli che vadano in Galilea” (Mt 28,10).
La sfiducia che i discepoli, secondo altri vangeli, mostrano verso la parola delle donne che annunciavano il Risorto (“quelle parole parvero un vaneggiamento agli Undici e non vi credevano”, dice Luca 24,11), sfiducia così simile alla sufficienza sprezzante con cui il pagano Celso dileggiava l’annuncio cristiano della resurrezione fondato sulla testimonianza di una “donna esaltata” (Origene, Contro Celso II,55), contraddice la volontà del Signore che affida proprio ad alcune donne la parola che sta al cuore del vangelo e che fonda la fede cristiana come buona notizia. La Pasqua del Signore rende quelle donne stupefatte e impaurite delle apostole o, come sono chiamate in testo del XII secolo, delle “evangelizzatrici e ambasciatrici della resurrezione”.
Il vangelo dice che le donne, Maria di Magdala e l’altra Maria, che già da lontano avevano osservato la crocifissione (Mt 27,55-56), che erano rimaste sedute di fronte alla tomba al momento della sepoltura (Mt 27,61), ora decidono di andare a vedere la tomba (Mt 28,1). Esse custodiscono e cercano di far durare nel tempo l’unico contatto ancora umanamente possibile con Gesù: e questo posando lo sguardo sul luogo dove era stato posto.
Osservare una tomba è aggrapparsi alla spazialità residua di colui che non occupa più spazio perché non c’è più. Una tomba è memoriale, accende il ricordo del tempo condiviso con chi non c’è più, incide nello spazio, nella terra, la presenza di chi è morto; la tomba è la spazialità rimasta di chi è morto. La tomba rende lo spazio, quello spazio dove giace il morto, intriso di tempo, del tempo passato.
Ora, c’è una grande forza nella silenziosa e ostinata presenza di queste donne, una forza che manca ai discepoli che sono i veri scomparsi in questa scena. C’è un coraggio in queste donne, il coraggio che, seppure nell’antichità greca si chiamasse andreía e fosse dunque per eccellenza virtù maschile e legata in particolare al combattere, all’eroismo nella battaglia, qui è delle donne, ed è legato all’amore, è il coraggio di chi ama, e non teme di sfidare la presenza delle guardie, di rischiare la reazione dei soldati che devono impedire anche con le armi l’accesso al sepolcro per evitare il rischio di trafugamento della salma. E c’è pazienza, decisione e fermezza nel loro andare e nel loro non desistere.
E tuttavia non è la contemplazione del sepolcro che le crea apostole, ma l’ascolto dell’annuncio angelico, l’essere rinviate alle parole del Signore (“È risorto, come aveva detto”: Mt 28,6). Le donne ascoltano attraverso il loro guardare: quel contemplare, quell’osservare intenso, pieno di affetto umano, quello sguardo d’amore diviene il grembo che le porta ad accogliere la manifestazione della presenza e della potenza divina nel luogo della morte. Le donne sono fatte spettatrici del grande terremoto: l’angelo del Signore rotolò la pietra e si mise a sedere su di essa. Narrazione di visione che va colta come interpretazione della tomba vuota alla luce delle parole della Scrittura e di Gesù stesso: “il terzo giorno il Figlio dell’uomo risorgerà” (Mt 20,19).
Ed ecco che il coraggio dell’amore diviene coraggio della fede. La fine diviene un inizio. Dal vedere una tomba, che è il segno di una fine, è memoriale di un tempo finito, si passa all’annunciare un futuro, l’inizio di una nuova storia: “Vi precede in Galilea; là lo vedrete” (Mt 28,7); “Annunciate ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10). “Non abbiate paura”: opposta alla paura, la fede si declina subito come coraggio.
Se la paura blocca e paralizza, il coraggio osa iniziare. Certo, il coraggio ci chiede di vincere la forza della nostra debolezza. Perché noi spesso accordiamo alla nostra debolezza un potere che ci schiaccia, ci imprigiona, ci paralizza e blocca nelle relazioni e ci chiude nel lamento sterile e nella tristezza mortifera. Ma allora a noi manca anche la gioia e la nostra vita non sa neppure annunciare la resurrezione. E non la sa vivere. E noi restiamo i più miserabili tra gli uomini.
Sono dunque per noi, per ciascuno di noi, per le nostre comunità, le parole del Risorto alle donne: “Siate nella gioia”; “Non abbiate paura”. Si tratta solo di credere, di aderire all’annuncio del vangelo e della liturgia: “Non è qui, è Risorto”, “Cristo è risorto, è veramente risorto”.