La terra promessa dell'incontro

Leggi tutto: La terra promessa dell'incontroLa simmetria – legge fondamentale di ogni incontro autentico – non è un qualcosa che si acquisisce di primo acchito, soprattutto a causa dei pregiudizi che gli uomini si impongono vicendevolmente, sia da un punto di vista sociale che religioso. Vi è perciò la necessità di attraversarli perché a un dato momento le due persone possano accedere all’esperienza di una vera simmetria, prima ancora che si possa parlare di reciprocità. La reciprocità, infatti, può nascere solo quando si è vissuta la simmetria; non può essere “prodotta”: come esigerla dall’altro? Io non posso che espormi a lui consegnando, in una certa fiducia a prima vista, qualcosa di me stesso – e forse ciò che più è profondo in me – e sperando che questo lo inviti a fare altrettanto. Tale è il carattere di gratuità racchiuso in ogni incontro. A partire da questo presupposto, l’ospitalità si presenta come un’offerta: la simmetria permette di offrire all’altro la possibilità di esprimersi e di condividere qualcosa, affinché io diventi a mia volta suo ospite … Esponendomi all’altro, accogliendolo presso di me, nella mia casa, alla mia tavola o semplicemente sulla soglia – e a condizione che io sia vero con me stesso in questa accoglienza –, sono sempre in attesa che l’altro faccia lo stesso. Se per miracolo lo fa, io divento suo ospite ed egli mi dà ospitalità. Questa è la trama fondamentale che attraversa le Scritture, dalla figura di Abramo fino al pasto promesso nell’Apocalisse: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). La simmetria si trasforma allora in reciprocità: “Io con lui ed egli con me”.

Questa immagine dell’incontro e dell’ospitalità non è soltanto escatologica: caratterizza la figura di Gesù di Nazaret, “l’essere ospitale” per eccellenza. Essa è per ora, segna l’entrata nella “terra dove scorrono latte e miele” (Es 3,8). Ogni terra può diventare terra promessa quando degli esseri vivono l’incontro fino in fondo, come ha fatto Gesù di Nazaret … La sua ospitalità è radicale, al punto che egli si annulla per permettere all’altro di trovare la propria identità

Qual è la posta in gioco di questa ospitalità? È la rivelazione di ciò che la tradizione biblica chiama “fede”. Non ancora una fede esplicita in Dio, ma la fede come espressione ultima dell’essere umano, quell’atto fondamentale, del tutto elementare, che scommette sulla vita. Ne vale la pena, c’è di mezzo la vita: essa manterrà la promessa. Nessuno di noi ha scelto di esistere, siamo stati tutti messi al mondo, e ciascuno deve riconciliarsi con il fatto di esistere in certe condizioni precise, di tipo sociale, culturale, nazionale, religioso, politico, con i loro limiti terribili: le disuguaglianze di ogni sorta, i confronti che esse producono, le immagini altrui che ci aggrediscono, e via dicendo. L’ospitalità è il luogo della riconciliazione con se stessi. E nessuno può farlo al posto di un altro. Ecco allora il miracolo della reciprocità. Un essere ospitale può generare in me questo atto di fede: la mia esistenza vale la pena di essere vissuta…

Christoph Theobald, Lo stile della vita cristiana

Là dove c’è amore!

Leggi tutto: Là dove c’è amore!Il Cristo che chiede di essere cercato tra i suoi amici è il medesimo che domanda di essere individuato là dove c’è amore, e il medesimo che alle sue piccole chiese dà l’appuntamento attorno alla mensa della Parola e del pane. “Il primo giorno della settimana … cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui … Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (Lc 24,1.27-35). Il Risorto vivente in un giorno preciso si accompagna ai due di Emmaus dagli occhi impediti a riconoscerlo, tristi e tardi di cuore e di mente: un fare strada insieme nel dialogo e nella spiegazione delle Scritture, un sostare insieme a tavola nel compimento del gesto dello spezzare il pane, incendiando il loro cuore e facendosi riconoscere per quello che è in verità.

È un racconto il cui ideale prolungamento è dato dalla celebrazione domenicale della cena del Signore, letta come il giorno dell’appuntamento da lui dato al “noi” ecclesiale pellegrinante nella storia. Racconto decisivo a riguardo del quando cercarlo. Nel giorno da lui stabilito, quello della resurrezione, a sottolineare che l’incontro è con un tu vincitore della morte. E a riguardo del dove cercarlo. Là ove lui ha stabilito e come lui ha stabilito di farsi incontrare, nella povertà dei segni: come Parola nascosta nel grembo di una pagina, come già nel grembo della Vergine, come dono nascosto in un pane che si spezza e si consegna in pasto … Per divenire finalmente a misura di lui: pane che si spezza per l’altro e che si dona in cibo all’altro, vino per la gioia dell’altro, un modo di essere che dice la verità di Cristo, di Dio e dell’uomo.

Attestazione del nostro essere veramente figli, veramente eredi, è il dono dello Spirito, apportatore di una fruttificazione in attesa della sua piena fioritura, suggeritore e garanzia che questo è solo il presente di un futuro ancora nascosto e atteso. L’uomo già figlio e già erede vedrà compiutamente se stesso e il suo destino quando il suo volto si specchierà occhio contro occhio in quello di Dio, e saranno una filialità e un destino che investiranno la stessa redenzione del corpo: “Aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,20-21). L’esistenza cristiana si muove pertanto tra un già di salvezza e un non ancora del suo pieno svelamento, che costituisce l’oggetto della speranza: quel compimento futuro non ancora visibile, un non visto atteso nella perseveranza, nell’attenzione a non scindere la croce dalla resurrezione e la resurrezione dalla croce, legando il gemito a una “speranza che non delude” (Rm5,5), uno sperare contro ogni speranza alla maniera di Abramo, oltre la disperazione (cf. 1Ts 4,13).

Giancarlo Bruni, Pellegrini in cerca di senso

Una felicità senza misura

Leggi tutto: Una felicità senza misuraLa ricerca della felicità è vecchia quanto l’uomo: ma come vivere una vita felice, premesso il fatto che la nostra condizione umana è segnata dalla finitezza e dagli imprevisti dell’esistenza (malattia, cattiva sorte, catastrofi di ogni genere, perdita delle persone care e, a scadenza più o meno ravvicinata, la prospettiva della propria morte)? Nell’antichità si riteneva che gli dèi fossero “felici” perché sfuggono alla sorte dei mortali, godendo così della felicità eterna. Quanto agli uomini, continuano incessantemente a cercare la felicità e la individuano nella salute, nell’amore, nel denaro, nella sapienza, nella bellezza, nel potere, nella pietà, nella protezione degli dèi. Su tale questione della felicità e delle condizioni alle quali è possibile le beatitudini dell’Evangelo di Matteo (cf. 5,3-12) rappresentano un contributo originale. Il loro intento è in effetti per lo meno paradossale: Gesù vi proclama che la felicità si riceve in una condizione di povertà di spirito, al cuore della prova e più in generale in situazioni di carenza e di umiltà, a priori poco conformi ai canoni abitualmente associati alla felicità. Gesù non afferma certo che la felicità nasce dalla sofferenza, tuttavia egli sostiene non soltanto che essa trova la sua sorgente nell’attesa di qualcosa la cui origine va collocata all’esterno di questo mondo (quello che Matteo chiama “il regno dei cieli”), ma anche che può essere vissuta proprio al cuore della prova: è una definizione di felicità che non corrisponde a nulla di ciò a cui siamo abituati!

Si potrebbe dire che il discorso della montagna elabora una “logica paradossale”, paradossale nel senso che va controcorrente rispetto all’opinione comune. Infatti il discorso della montagna ha la capacità misteriosa di suscitare una comprensione del rapporto con se stessi e con gli altri che trascende ciò che abitualmente pensiamo di una vita buona e felice. Il dono debordante, che non attende ricompensa alcuna, e la fiducia assoluta fondata unicamente sulla promessa di una parola ne sono i due pilastri …

La logica della dismisura del dono e della fiducia nella gratuità è possibile nel quotidiano? La storia dell’umanità, e la nostra personale esperienza di credenti mostra che, in generale, tale logica paradossale appare come un emergere improvviso, come un qualcosa di inatteso, un dono che viene da altrove e non dalla nostra volontà. La logica della dismisura del dono e della fiducia nella gratuità è piuttosto un lasciare che in noi operi la Parola, che interviene allora come una grazia. Bisogna però accoglierla in noi quando si manifesta. Noi non possiamo prevederla, programmarla, padroneggiarla. Dobbiamo semplicemente riconoscerla, a cose fatte, quando ne contempliamo gli effetti in noi e attorno a noi.

Élian Cuvillier, Paradossi del vangelo

Nelle mani i colori dell’arcobaleno

Leggi tutto: Nelle mani i colori dell’arcobalenoNel corpo così piccolo, così effimero, vive tutto un universo, e se potesse darebbe la sua vita per la vita del mondo. Nel nostro corpo si rivela il desiderio di Dio. In fin dei conti, quel che ci mormora la dottrina dell’incarnazione è che Dio fin dall’eternità ha voluto avere un corpo come il nostro …

Ma il corpo non è soltanto sorgente che deborda: è braccia che accolgono.

L’orecchio che ascolta il lamento, in silenzio, senza dir nulla...
La mano che ne stringe un’altra...
La poesia, magia che transustanzia il mondo mettendovi delle cose invisibili, rivelate solo dalla parola...
La capacità magica di ascoltare le lacrime di qualcuno, lontano, mai visto, e anche di piangere...

Il mio corpo deborda e fertilizza il mondo...

Il mondo deborda, e il mio corpo lo riceve...

Così semplice, così bello. Ma è successo qualcosa di strano. Qualcosa ci ha tentato, e noi abbiamo cominciato a cercare Dio in luoghi perversi. Abbiamo pensato di incontrare Dio dove il corpo finisce: e l’abbiamo trasformato in bestia da soma, in esecutore di ordini, in macchina per il lavoro, in nemico da mettere a tacere, e così l’abbiamo perseguitato, al punto da far l’elogio della morte come via verso Dio, come se Dio preferisse l’odore delle tombe alle delizie del paradiso. E siamo diventati crudeli, violenti, abbiamo permesso lo sfruttamento e la guerra. Perché se Dio si trova al di là del corpo, allora al corpo tutto può essere fatto.

Ho scritto queste cose come celebrazioni della resurrezione. Nella speranza della resurrezione dei morti. Per esorcizzare la morte, che noi stessi alimentiamo con la nostra carne. Invocazioni di gioia e bellezza. Chi ha gioia e ama la bellezza lotta meglio.

I corpi risuscitati sono guerrieri più belli perché portano nelle loro mani i colori dell’arcobaleno. E allora i corpi si trasformano in seme che feconda la terra perché nasca il futuro...

Rubem A. Alves, Il canto della vita

Colti di sorpresa!

Leggi tutto: Colti di sorpresa!I primissimi testimoni della resurrezione sono terrorizzati e non sanno trovare le parole per comunicare quello che hanno visto, perché hanno visto Dio porre il suo sigillo sul Gesù crocifisso, dichiararsi nel Gesù morto, sconfitto e abbandonato. Nell’evento misterioso della tomba vuota Dio dice: “Non è stata la fine: sono vivo in Gesù”. E la prima volta che fu udito questo messaggio, la reazione non fu la sensazione di un blando sollievo religioso, ma piuttosto un senso di terrore. Non siate dunque in preda allo sgomento, dice perciò Marco ai lettori, se a una prima lettura anche voi troverete ciò terribile o spaventoso.

Ma all’interno di ciò giace uno stimolante paradosso. È evidente che le donne dissero qualcosa,altrimenti il vangelo non sarebbe stato scritto. Alla fin fine fu loro possibile trovare le parole per ciò di cui mai avevano immaginato di poter parlare. Se dunque tu sei perplesso, sconcertato e attonito dinanzi al mistero della croce e della resurrezione, non disperare. Altri hanno trovato le parole, delle vite sono state vissute nella fede: per questo ti è dato il vangelo, perché qualcuno riuscì a parlare di questi eventi. Anche tu puoi farlo.

La misteriosa conclusione di Marco fa sì che ora tocchi decisamente a noi decidere che cosa fare. La resurrezione non è solamente qualcosa che è possibile additare, quasi a dire: “Ecco Gesù che esce dalla tomba camminando e che mostra al sommo sacerdote, a Pilato e a tutti gli altri quanto si fossero sbagliati”. La resurrezione è la ri-creazione di un rapporto di fiducia e di amore, proprio laddove la realtà umana si fa estrema: nella sofferenza, nell’abbandono, nella morte. È su questo che la storia della resurrezione fa convergere il nostro sguardo. Dunque la conclusione del vangelo ci dice che la fede nel Gesù crocifisso e risorto è possibile, e che dobbiamo continuare a leggere e ad ascoltare finché non l’avremo trovata, a leggere e ad ascoltare finché non avremo colto che cosa Gesù ha smantellato e abolito … Nel testo evangelico vi è la prova che è possibile trovare le parole per parlarne, purché si sia sufficientemente pazienti e coraggiosi da porsi in loro attesa …

È come se si confidasse nel fatto che un giorno tutte queste cose acquisiranno un senso alla luce dello schema globale della profezia ebraica, sebbene non vi si sia ancora giunti. L’evento pasquale fu abbastanza nuovo, abbastanza strano e abbastanza preoccupante da far sì che non si disponesse, per parlarne, di alcuna struttura preconfezionata. Malgrado le profezie poste sulle labbra dello stesso Gesù, i suoi seguaci continuano a essere colti di sorpresa, come se il mero fatto brutale della sua morte umiliante avesse cancellato ogni ricordo di qualsivoglia speranza espressa da Gesù.

Rowan Williams, Il Dio di Gesù nel Vangelo di Marco

Ritorno alla luce

Leggi tutto: Ritorno alla luceL’ingresso nella grande settimana suggerisce l’idea di un esodo, un cammino di liberazione che permette di passare da un mondo a un altro. Non bisogna mai temere di mettersi in cammino, né di abbandonare per un breve intervallo di tempo quel clima di superficialità nel quale il più delle volte viviamo. Per ritrovare il significato profondo della grande settimana e gustarla in tutto il suo spessore i cristiani devono imparare a dedicarvi tempo. Ci vuole coraggio per sbarazzarsi di tutto il “vecchiume”, ciò che è abitudinario, le pose “inacidite”, i vecchi orizzonti, le solite occupazioni e preoccupazioni, le vecchie angosce… La vera domanda da porsi per il cristiano è: sono disposto a perdere del tempo per poterlo ritrovare come dono alla sorgente? Il cristiano grazie alla liturgia, ai suoi testi, ai suoi canti, alla ricchezza dei suoi segni, accede alla visione della grazia pasquale. La Pasqua nella liturgia diventa per lui visione, precisamente nel senso in cui ne parlano i testi sacri.

La fede del cristiano? Disarmante semplicità: è vivere la pasqua! È questo, è tutto qui… Non è che questo: in ogni istante, in ogni prova, in ogni vertigine che ti coglie. Una volta che tu sai che “pasqua” vuol dire “passaggio”, comprendi che si tratterà costantemente di operare un passaggio: dalla notte al giorno, dal male al bene, dalla sofferenza alla pace, dalla carenza all’abbondanza. O l’inverso. In ogni caso mai come un sovrapporsi statico di esperienze, ma come cammino dinamico. Il credente sa decifrare la forza costante di questa creazione interiore, spirituale, al cuore stesso di tutti gli istanti della propria vita. Pasqua è vivere costantemente questo passaggio in Dio di tutto il nostro essere …

Semplicità. Scopriamo qui la possibilità di accedere a un’altra realtà, completamente trasfigurata, del mondo. In fondo, Cristo riporta la materia alla sua origine di luce, la rivela come in un fotogramma; cosa riconducibile al mistero dello Spirito. Come comprendere altrimenti la parola che ci dice che “Dio è luce” (1Gv 1,5)? Non vi è altra prova che rischiare di persona, come ricorda un proverbio cinese che non mi stanco mai di citare: “La farfalla conosce la fiamma alla quale si consegna”. A chi chiede di conoscere la fede cristiana mi viene sempre voglia di rispondere: “Vuoi conoscere la luce della Pasqua? Celebrala! E lasciati bruciare d’amore fino al culmine, la croce”. La grande settimana celebra questo ritorno alla luce. Il mondo è nato, ci dice la fisica contemporanea, da un’eccedenza di fulgore. Tutto è partito da quella sorgente originaria che è l’atto più bello; immaginiamo quell’istante, un frammento, un’esplosione di luce candida. Nel mistero della resurrezione vi è qualcosa che assomiglia a un ritorno della materia al mistero di Dio. In Cristo l’intero cosmo è tornato alla sorgente, nel suo splendore e nella sua luce.

André Gouzes, La notte luminosa

Gesù Servo e Signore

Leggi tutto: Gesù Servo e SignoreQuando celebra nella gioia e nell’azione di grazie la cena del Signore, la chiesa apostolica non può dimenticare che quella cena la rimanda alla cena di Gesù Servo, che si reca al suo martirio. Nella presenza del Signore, operante en pneumati al cuore di essa, è l’atteggiamento del Servo ciò di cui l’assemblea eucaristica fa memoria. Infatti sa, per la sua fede, che la cena del Signore celebra nei segni essenzialmente l’atteggiamento interiore – esternato e concretizzato negli eventi della pasqua – con il quale, entrando in totale comunione con il volere del Padre, Gesù perviene alla gloria del Kyrios. Il Kyrios è inseparabile dal Servo, incomprensibile senza un riferimento a quest’ultimo: la sua signoria non è altro che la glorificazione da parte dello Spirito della sua povertà di Servo. Croce e resurrezione costituiscono un solo mistero non semplicemente per il fatto che rappresentano gli estremi di un unico e indivisibile movimento.

Per la tradizione apostolica la cena del giovedì santo ha dunque il suo fulcro nella presenza del Servo in mezzo ai discepoli. Gesù instaura in quel momento tra sé e ciascuno dei commensali, per il semplice fatto di mangiare e bere con loro, un profondo legame di fraternità. Gesù dunque inscrive la sua eucaristia in questa valenza unitiva del pasto, conferendole un livello di profondità completamente nuovo …

Inoltre, benché Gesù in questa comunità occupi il posto principale, vi appare comunque in un rapporto di comunione orizzontale con i commensali. Invitandoli alla sua tavola, li fa partecipare a ciò che anche lui riceve da Dio, li associa al suo bene personale. Questo spiega le reazioni violente dei farisei per i suoi pasti con gli empi e i peccatori. Per quel che concerne in particolare la cena del giovedì santo, è importante sottolineare che Gesù in quell’occasione fa accedere i suoi a una comunità conviviale propriamente messianica, legata alla sua missione personale e alla sua qualità di Servo. Infatti siamo già nel clima della passione. Questo è ulteriormente accentuato dal fatto che le tradizioni evangeliche ci immergono nell’atmosfera della cena pasquale, che com’è noto ha una dimensione messianica. Pasto del Servo che va al martirio, l’ultima cena è dunque il pasto di coloro che sono ammessi a formare la prima cellula del popolo messianico, il popolo nuovo della nuova creazione.

Il semplice fatto di essere con Gesù alla tavola dell’ultima cena permette già di accedere alla comunione con lui. Si comprende allora la grande affermazione, che alimenta la speranza, riferita da Luca in questo contesto: “... perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio Regno” (Lc 22,30). La comunità conviviale eucaristica – in tutta la sua realtà ma anche in tutta la sua precarietà, dovuta al fatto che l’uomo non può mai essere certo della propria fedeltà – annuncia la koinonia definitiva nel Regno a venire. Il mistero del popolo nuovo viene cosi visto alla luce di tale comunità conviviale, radicata nell’economia della creazione.

Jean-Marie R. Tillard, Eucaristia e fraternità