L’arte di accogliere le famiglie nel lutto - Osservatore Romano 1 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Osservatore Romano 1 giugno 2017
di Louis-Marie Chauvet

Prima di essere la casa di Dio (i templi pagani erano la casa del dio e contenevano la statua che lo rappresentava), una chiesa è la casa della Chiesa, cioè del popolo di Dio. Popolo di Dio: ecco una delle immagini che è riemersa nel concilio Vaticano II per designare la Chiesa, immagine che, a differenza di quella paolina di «corpo di Cristo» è largamente estensibile: di un corpo o si è membra o non lo si è, non c’è via di mezzo; parlare di un popolo permette di abbracciare una realtà più ampia.

Ora, questo popolo di Dio è per l’appunto molto diversificato: diverso non solo per cultura e lingua, ma per il suo posizionamento nella fede. Ciascuno, di conseguenza, deve poter trovare il proprio posto nell’edificio-chiesa, sentirsi accolto e anche, in certo modo, avere la sensazione di essere atteso per il semplice fatto che il Dio del vangelo attende e accoglie ciascuno così com’è, quale che sia il punto in cui si trova, come ama sottolineare così frequentemente Papa Francesco. Nel “corpo di umanità” di Cristo, che sia attuale (i cristiani) o semplicemente virtuale (l’insieme dell’umanità), ciascuno deve poter trovare il suo posto. Questo deve evidentemente ripercuotersi sulla qualità della celebrazione dei funerali. Ora, questa qualità dipende innanzitutto dalla qualità dell’accoglienza e dell’accompagnamento delle persone che richiedono tale cerimonia.

Vorrei parlarvi a partire dalla mia pratica pastorale in una parrocchia di ventiduemila abitanti nella periferia parigina in cui si celebrano circa settantacinque funerali l’anno. Nella nostra équipedi accompagnamento delle famiglie in lutto siamo quattro, tre laici e io, che sono presbitero. Poiché la messa propriamente detta è celebrata raramente in questa occasione per il fatto che la stragrande maggioranza dei defunti non erano o non erano più praticanti, e spesso da molto tempo, e che il rapporto della loro famiglia con la fede cristiana è diventato spesso molto debole, il più delle volte potrei anche non mettermi in gioco in quanto prete, e questo tanto più per il fatto che le tre persone che assicurano questo compito lo fanno con tutta la cura che ci si potrebbe augurare da un punto di vista pastorale e spirituale.

Eppure, almeno tre volte su quattro sono presente accanto a una di loro. C’è un motivo pastorale: fa parte essenziale dello sforzo che abbiamo intrapreso da qualche anno per «andare nelle periferie», come domanda Papa Francesco. Le cosiddette periferie, in questo caso, non abbiamo bisogno di andarle a cercare, vengono da noi in quest’occasione e, oserei dire, vengono da molto lontano rispetto alla fede cristiana.

La maggioranza di queste persone non hanno altro elemento di identità cristiana che qualche vago ricordo del catechismo imparato durante l’infanzia; i loro figli, oggi adulti, molto spesso non sono battezzati o, comunque, non hanno ricevuto una catechesi. A mio avviso, sarebbe un peccato (come fa purtroppo la maggior parte dei preti oggi in Francia) non approfittare di questa opportunità col pretesto che, poiché dei laici possono svolgere questo incarico, i preti non devono più occuparsene. Personalmente, e questo costituisce, al di là della motivazione personale, la ragione propriamente teologica del mio atteggiamento, io rifiuto questo aspetto concorrenziale. È un pensiero tipicamente clericale, centrato sul potere: «Se lo possono fare loro, allora non c’è bisogno che entri in gioco anch’io».

Questo non corrisponde affatto a ciò che padre Yves Congar chiamava non molti anni orsono la «corresponsabilità differenziata» tra ministeri ordinati (preti e diaconi) e ministeri dei laici! Una corresponsabilità suppone che non si sostituisca un termine all’altro ma che, al contrario, si cooperi ciascuno in nome della sua missione (questo si chiama partenariato). Del resto, se si restringe il campo di esercizio del ministero presbiterale nell’ambito di ciò che è sacramento nel senso stretto del termine, non si finisce per sostenere una già inquietante “sovra-sacerdotalizzazione”? La “consolazione” (paráklisis, 2 Corinzi 1, 4-5) non costituisce una delle dimensioni del ministero presbiterale?

Affinché la celebrazione nell’edificio-chiesa sia vissuta come evangelicamente buona da parte di partecipanti che, come ho già ricordato, si trovano alla periferia in rapporto alla Chiesa, occorre innanzitutto offrire loro una buona accoglienza. E offrire loro una buona accoglienza non significa soltanto accettarli umanamente così come sono, ma posare su di loro un riflesso dello sguardo di Cristo, e dunque accogliere la particella di Regno che può giungerci attraverso di loro, perché anch’essi sono amati da Dio, anche per loro Cristo ha dato la sua vita, anche in loro opera lo Spirito. Ricordiamo su questo tema le stupende affermazioni del Vaticano II: il mistero pasquale «vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).

Evidentemente questo richiede una conversione dello sguardo sulle persone. Ma tale conversione permette aperture sperimentate centinaia di volte. La postura di chi è accolto si lascia chiaramente modellare in qualche modo da quella di chi accoglie. L’apertura risponde all’apertura. A una “contrazione” di chi accoglie corrisponde una “contrazione” di chi è accolto. E quando si adotta una postura che, pur rimanendo gentile, è fondamentalmente contratta, quando dunque questo genere di incontri risultano poco felici, non si può fare un buon lavoro pastorale. Come potrebbero le persone accogliere qualcosa della buona novella quando la relazione è così tesa? Del resto, dov’è la qualità evangelica di questo comportamento? Non riflette piuttosto il desiderio di potere di chi accoglie invece del riflesso dello sguardo benevolo del Dio del vangelo: il padre del figlio prodigo, il pastore alla ricerca della pecora perduta, il padrone che ricompensa gli ultimi arrivati tanto quanto gli operai della prima ora?

Beninteso, se anzitutto occorre saper accogliere, bisogna anche offrire la possibilità di progredire. La benevolenza umana e cristiana dell’accoglienza non significa che ci si dovrebbe sottomettere al desiderio delle persone accolte, le quali, animate da rappresentazioni di Dio spesso poco cristiane, e incapaci o diventati incapaci di padroneggiare la grammatica elementare dei riti liturgici, hanno bisogno di essere guidate. Tutto sta nel guidarle in maniera evangelica. Così come c’è un’arte di celebrare, c’è un’arte di accompagnare, che è altrettanto complessa, se non ancora di più, rispetto alla prima.

La cosa più importante in tale questione sta nella qualità della relazione: il contenuto teologico di quello che sono indotto a dire nel corso della relazione in quanto prete è meno importante del modo in cui lo dico. Il teologo che io sono, tuttavia, non è affatto indotto a minimizzare la qualità di questo contenuto ma lo subordina alla qualità dell’incontro. In altre parole, è la teologia della sua pastorale che è qui in gioco.

In genere passo la prima ora dell’incontro insieme con un laico dell’équipead ascoltare, innanzitutto, il racconto della vita del defunto fatto dai suoi parenti. Inutile dire che questo momento è importantissimo perché è in questo ascolto che si costruisce la relazione che permetterà di dire qualche cosa della Buona Notizia. Sia ben chiaro, sto parlando della buona notizia del vangelo e non di idee teologiche o regole morali. La mia missione, in questa circostanza, non è quella di correggere storture teologiche o di impartire lezioni di morale, ma è quella di essere un testimone che permette alle persone di attingere alla fonte dell’«acqua viva». O, per utilizzare un’altra immagine giovannea, la mia missione è quella di permettere alle persone di gustare qualche cosa del vino nuovo e inebriante di Cana, non un vino che, con il pretesto di adattarsi alle persone, è tagliato con acqua a tal punto da diventare una bevanda insapore; come potrebbe una bevanda simile generare in quelle persone il desiderio del vangelo?

Certamente l’adattamento alle persone accolte è una necessità pastorale e occorre che questo adattamento sia fatto con intelligenza. Non si tratta assolutamente di neutralizzare in un modo o nell’altro la straordinaria novità del Dio del vangelo, cioè un Dio che ha perduto la sua “autoritaria” superbia perché è Amore (cfr. 1 Giovanni 4), amore per ciascuno fino a perdere la vita (croce); amore per ciascuno perché è in se stesso amore (relazioni trinitarie). In compenso, occorre vigilare sulla quantità di questa novità inaudita che le persone possono assorbire; una quantità eccessiva farebbe girar loro la testa o li farebbe ammalare! Sono personalmente convinto della pertinenza delle parole di Papa Francesco a questo proposito: «Quando si va all’essenziale, tutto si semplifica». E a questo essenziale è piuttosto facile andare quando ci si fonda semplicemente su alcuni riti fondamentali dei funerali: il canto d’addio, i riti così semplici e belli della luce, l’incenso, l’acqua battesimale... Insomma, io faccio una breve “mistagogia” prima della celebrazione.

In seguito lascio la famiglia con un membro dell’équipeper una seconda ora, e a volte di più, per preparare nel dettaglio la celebrazione: scelta delle letture, intenzioni della preghiera universale e così via. È l’occasione per ulteriori confidenze. Molti testimoniano che il fatto di non trovarsi più con un prete, in quanto rappresentante ufficiale della Chiesa e anche, certamente, di trovarsi con un laico, soprattutto forse quando si tratta di una donna, costituisce un plusvalore nella relazione e questo favorisce grandemente il clima della celebrazione liturgica qualche giorno più tardi.

La pastorale è innanzitutto una questione di relazioni. Riprendendo le ben note categorie di John Langshaw Austin sull’atto del parlare si può dire che essa non è tanto d’ordine “locutorio” (il contenuto di ciò che viene detto) ma piuttosto d’ordine “perlocutorio” (l’effetto morale o spirituale che produce sulle persone) e soprattutto d’ordine “illocutorio”: «Chi sono io per voi, signora, signore» e «chi siete voi per me». Ciò che è più determinante è questo rapporto tra le posizioni di chi accoglie e di chi è accolto; un rapporto di stima e di rispetto per le persone che si manifesta nella qualità dell’ascolto, un ascolto cordiale del racconto della vita che vi viene raccontata, spesso a frammenti. Storia spesso complessa; non siamo tutti «invischiati in storie», come dice il bellissimo titolo dell’opera di Wilhem Schapp? Quando, grazie a questo tipo di relazioni, le persone si sentono veramente accolte, possono accogliere a loro volta qualche cosa del vangelo come Parola di un amore che salva. Si potrebbero rileggere ovviamente alcuni famosi incontri di Gesù come quello della samaritana (cfr. Giovanni 4); è la qualità di questo incontro che nella donna trasforma un “bisogno” di qualcosa in “domanda” di qualcuno: il bisogno immediato di acqua (la donna «lasciò la sua anfora») trasformato in domanda dell’“acqua viva” che è Gesù stesso in quanto “Salvatore”. E alla fine è dentro di lei che zampilla la fonte di quest’acqua viva. L’accoglienza pastorale delle persone che chiedono un rito di passaggio come i funerali deve poter permettere, anche se il tempo è poco, di far loro gustare qualcosa di questa trasformazione che fa vivere!

Ho parlato dei funerali in chiesa. Avrei potuto evocare altri riti di passaggio, quali il battesimo dei bambini o il matrimonio. In ciascuna di tali circostanze è possibile, ne sono convinto tanto a motivo della frequente pratica pastorale quanto sulla base della teoria teologica, aprire una domanda di rito su un itinerario di senso: senso cristiano, certamente, e credo che la mia insistenza precedente su questo tema l’abbia dimostrato, ma anche senso umano. Non si può celebrare nella liturgia l’umanità del Dio divino rivelato in Gesù senza crescere noi stessi in umanità. Vi è motivo di pensare, guardando all’uscita dalla chiesa i volti delle persone che vi hanno celebrato un rito di passaggio o ascoltando le poche parole che accompagnano il loro sorriso, che esse escano da questo luogo più umane di come sono entrate, e anche più cristiane! Non per questo ricominceranno a partecipare all’eucaristia domenicale o alla vita della comunità parrocchiale, ma anche se il pastore se lo augura, non è questo che ha di mira.

Il pastore punta su quel passo verso il Dio del vangelo che l’evento religioso ha permesso loro di fare. Per il resto, si ricorda di non essere altro che un servo che non ha fatto se non quello che doveva fare (cfr. Luca 17, 10), atteggiamento evangelico di spossesso di sé che lo libera e gli permette di vivere nel rendimento di grazie.

Abitare celebrare trasformare - Osservatore Romano 1 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Osservatore Romano 1 giugno 2017

Dall’1 al 3 giugno si terrà presso il monastero di Bose (Magnano, in provincia di Biella) il quindicesimo convegno liturgico internazionale. Organizzato dal monastero e dall’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Conferenza episcopale italiana, in collaborazione con il Consiglio nazionale degli architetti, avrà per tema «Abitare, celebrare, trasformare. Processi partecipativi tra liturgia e architettura». Il convegno — di cui anticipiamo stralci di due interventi — è un appuntamento annuale in cui studiosi ed esperti di diversi paesi si confrontano su temi relativi al rapporto tra liturgia, architettura e arte, offrendo al vasto pubblico presente — composto da architetti, teologi, artisti, responsabili di uffici diocesani di liturgia, dei Beni culturali ecclesiastici, dell’edilizia per il culto, docenti e studenti delle facoltà di architettura e di teologia — un luogo di riflessione comune, animata dalla volontà di riconoscere appieno il valore dello spazio liturgico e dell’arte cristiana.

La sinergia fra ricerca architettonica e prassi liturgica necessita oggi di una grammatica per pensare e vivere la Chiesa attraverso i suoi spazi e le sue architetture, valorizzando la dimensione partecipativa dell’esperienza ecclesiale e architettonica, nel movimento virtuoso fra committenza, architetti, artisti e comunità cristiana, in dialogo con il tessuto sociale e ambientale circostante. Si delineano così nuovi processi partecipativi, in un linguaggio che coniughi il verbo fare nella prospettiva ecclesiologica del fare Chiesa e del fare chiese in senso architettonico. Alle origini di un edificio c’è sempre una comunità sinodale su scala locale, che deve confrontarsi con il desiderio, la sfida e la necessità di costruire, trasformare e abitare un edificio-chiesa. Un altro verbo da declinare è abitare, visto sotto l’angolo antropologico e filosofico del prendere dimora in uno spazio costruito. Se «l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra» (Heidegger) allora questa modalità deve essere pensata e assunta, in un dato intreccio e contesto sociale, nell’epoca dei non-luoghi.

Costruire implica porre un nuovo elemento all’interno di un paesaggio. In senso architettonico e teologico, la Chiesa è costruttrice del tempo e dello spazio, sapendo che costruire è quell’autentico abitare, che — mentre erige costruzioni — si prende cura di ciò che cresce. Celebrare, invece, in chiave teologica, implica assumere e abitare la ritualità e la spiritualità in un luogo. Oggi in modo evidente, celebrare implica accogliere la domanda di riti per avviare itinerari di fede e di umanizzazione. Il celebrare è lo scopo del costruire ed è pienezza dell’abitare. Trasformare può essere tradotto con “dare nuova vita ai luoghi”. Ogni spazio costruito dall’uomo è un organismo vivo e per questo in continua trasformazione, autentica metamorfosi di finalità, usi e forme. Semper reformanda è la Chiesa, anche nelle sue architetture.

Il convegno è stato preceduto dal Cli/Lab, un laboratorio interdisciplinare tra architettura e liturgia che si è tenuto presso il monastero di Bose dal 24 al 26 febbraio scorso: venti giovani partecipanti selezionati tra studiosi e professionisti di varie discipline si sono confrontati declinando i verbi abitare, costruire, celebrare, trasformare in tutte le loro possibili combinazioni architettoniche e liturgiche. Alcuni di essi presenteranno le ricerche nate dal laboratorio, come fonte di dibattito tra i partecipanti al convegno.

 

Viste da fuori: con gli occhi dell’altro

Avvenire, 5 giugno 2016

Viste da fuori: con gli occhi dell’altro ci si guarda forse più a fondo. Il XIV Convegno Liturgico Internazionale incentrato sull’esterno delle chiese, conclusosi ieri a Bose, ha portato a compimento il primo ciclo di queste iniziative annuali, sorte, come ha ricordato il priore Enzo Bianchi “per riflettere sul legato e sull’attuazione del Concilio”. La realtà è andata cambiando pur in questi pochi anni e s’è imposto un più vasto ripensamento, che tenga in conto la crescente pluralità e interconnessione che si realizza nel vecchio continente dove, ha evidenziato Bianchi, si vive la grande tradizione della pluralità delle culture che ne informano l’anima cristiana, aperta all’accoglienza e alla conoscenza dell’altro, e capace, come nessun’altra cultura nel mondo, di esercitare l’autocritica grazie alla quale sa migliorare nel tempo. Per cui, ha spiegato fr Goffredo Boselli si aprirà ora un nuovo ciclo, che sarà meglio definito e concepito con i contributi di molti. E su una base ben solida, la cui sostanza si è ravvisata nell’excursus concretatosi nei corso dei tre giorni del convegno dove, significativamente, sin dai primi interventi di natura teologica e pastorale è stato posto il tema della dinamicità di una Chiesa “in uscita”, pronta all’ascolto e capace di rifletterlo anche nelle sue testimonianze inscritte nei luoghi e nelle pietre.

Proprio al dinamismo della Chiesa ha fatto riferimento mons. Mauro Galantino nella sua prolusione di apertura. Un concetto, quello del dinamismo dialogico, che è stato graficamente rappresentato da mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto per la Segreteria della comunicazione della Città del Vaticano, che ha mostrato come il cinema consenta di esperire punti di vista differenti e di “entrare” in eventi lontani nel tempo e nello spazio. Acquisendone così una conoscenza nuova e stabilendo un modo di vedere la realtà utile anche per concepire l’architettura delle chiese, che sono luoghi particolarmente vocati alla riflessione su di sé e sul mistero dell’uomo di fronte al creato. Così, guardandole “da fuori”, ai ragionamenti teologici sulle chiese, proposti da Alberts Gerhards e Paul Janowiak, rispettivamente del Seminario liturgico dell’Università di Bonn e della Santa Clara university di Bekeley, si sono unite le indagini di personaggi quali Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani che parlando del tema della soglia ha illustrato il senso della porta scolpita da Giacomo Manzù, la più recente tra quelle di cui è dotata la basilica di San Pietro.

I significati affettivi, culturali, simbolici dell’esterno delle chiese, sono stati discussi da Birgit Kastner dell’Università di bemberg. Un discorso che è stato approfondito entrando nel dettaglio di singole esperienze grazie alle testimonianze offerte da noti progettisti. A partire da Paolo Portoghesi, studioso del barocco oltre che autore di molteplici chiese: egli si è soffermato in particolare sulla prima da lui costruita in Salerno, in epoca immediatamente postconciliare, concepita in pianta come una serie di cerchi che si intersecano e che si elevano a gradonate simili a quelle del teatro greco. Portoghesi ha anche riferito sui ripensamenti che la forma architettonica suscita in lui come autore e nei fedeli, come abitatori della chiesa.

Mentre in specifico sulla facciata della chiesa da lui progettata recentemente per Sesto San Giovanni si è soffermato Cino Zucchi, spiegando come il movimento a “rientrare” di questa sia inteso a significare accoglienza e apertura: basta poco all’architettura per esprimere un significato.

Alla conclusione del convegno, il prof. Vittorio Gregotti ha ripercorso la storia dell’architettura per spiegare come cambiato sia il rapporto tra chiesa e città, col mutare della sensibilità e della cultura prevalente: un tempo protagonista assolute, dopo l’evoluzione imposta dalla “laicizzazione” illuminista, la chiesa è ora uno dei luoghi che ne segnano il tessuto. E questo richiede che la sua concezione sia diversa. Per esempio, ha chiosato Severino Dianich, che sul piano architettonico nei centri parrocchiali non si vivano come separati dall’aula per il culto, bensì ben coordinati con essa, i luoghi preposti alla carità, all’accoglienza, all’educazione. E Rafael Moneo, la cui principale opera architettonica è la cattedrale di Los Angeles, ha illustrato il modo come questa è stata concepita, quale esempio di interconnessione tra la chiesa e il suo contesto, che è quello di una delle città più emblematiche del mondo attuale globalizzato. Su un lotto di terreno affiancato da un’autostrada urbana, la cattedrale è stata progettata come una “cittadella” la cui abside si rivolge a est ma contemporaneamente è anche facciata che  guarda sul sagrato: in una specie di inversione che fa dei percorsi interni ed esterni all’edificio un luogo privilegiato per gli incontri delle tante comunità nazionali che vivono nella capitale californiana.

E il prof. Francesco Dal Co, storico dell’architettura e docente all’IUAV, ha spiegato che, a differenza di quel che si suol credere, nel ‘900 proprio per la Chiesa sono state realizzate alcune tra le più rilevanti architetture contemporanee. Che hanno nelle opere di Hans Dom van der Laan alcuni degli esempi massimi di spazi più densamente eloquenti pur nella loro purezza. E se il 900 è stato l’epoca dei movimenti dove le masse hanno rinunciato al volto umano, le chiese sono state il luogo dove le comunità si sono sempre trovate, lì riflettendo il proprio volto umano. Nell’attesa: di un evento che vive nella tradizione tanto quanto è sempre ricco di speranza.

Leonardo Servadio

RASSEGNA STAMPA

pdfAnche la chiesa diventa "interconnessa"

Avvenire
5 giugno 2016
di LEONARDO SERVADIO

pdfSulla pelle della chiesa 

Avvenire
4 giugno 2016
di LEONARDO SERVADIO

pdfLa questione cruciale del "volto" della chiesa

Avvenire
3 giugno 2016
di LEONARDO SERVADIO

Nuove chiese. Lo stile è condivisione 

Avvenire
29 maggio 2016
di LEONARDO SERVADIO

Monsignor Galantino: “chiese dignitose ma non sfarzose e inaccessibili ai più poveri”

Agenzia SIR
2 giugno 2016

Comunitarie e votate all’arte ecco le chiese nelle città del futuro

La Stampa
di VITTORIO GREGOTTI

Le chiese non siano sfarzose e inaccessibili

La Stampa - Vatican Insider
2 giugno 2016

Viste da fuori

THEMA - Centro studi di architettura e liturgia

Viste da fuori

Jerusalem - Lo spazio oltre
di LEONARDO SERVADIO

La pelle delle chiese che fa riflettere sugli spazi comunitari

Corriere della Sera - Tempi liberi
di LUCA MOLINARI

Foto e sintesi dei lavori del 4 Giugno

L’ultima giornata del convegno è iniziata con la relazione di Vittorio Gregotti, “La qualità urbana di una chiesa”, che ha analizzato la difficile dialettica, in età contemporanea, tra una chiesa e la realtà urbana che la circonda e le sfide che ciò comporta per gli architetti. È seguita, con una variazione rispetto al programma, la relazione di Rafael Moneo, che ha esposto le soluzioni adottate in due casi differenti (Los Angeles e San Sebastián) per far entrare l’edificio di culto in dialogo con il contesto urbano. Entrambi gli interventi hanno stimolato un dibattito ricco di suggestioni e approfondimenti. Dopo la pausa, ha preso la parola Francesco Dal Co, che nel suo intervento ha affrontato, a partire da alcuni esempi paradigmatici, l’architettura ecclesiastica del XX secolo, con particolare attenzione alle soluzioni aniconiche, leggendo in esse una crisi propria più delle arti figurative che dell’architettura.

 

Nelle conclusioni del convegno, fr. Goffredo Boselli e il priore fr. Enzo Bianchi hanno espresso gratitudine per il cammino svolto dal primo convegno a questo, e hanno rivolto a tutti l’invito a proporre nuove tematiche per i prossimi appuntamenti perché essi continuino ad essere occasioni di dialogo fecondo tra architettura e liturgia. Al termine dei lavori, la conclusione è stata rallegrata da un pranzo festivo offerto dalla comunità a tutti i convegnisti.

Foto e sintesi dei lavori del 3 Giugno

Andrea Longhi ha aperto la seconda giornata del convegno con una riflessione sulla facciata delle chiese come opera aperta, come cantiere. Sono seguite le relazioni di Isabelle Saint-Martin: “L’annuncio della facciata. Immagini, segni, simboli e scritte”; di Albert Gerhards, che ha articolato un discorso a partire dalla dialettica tra accoglienza e distanza, sensazioni che possono essere entrambe suscitate dalle facciate; e la relazione di Cino Zucchi, “Ideare una facciata”, in cui, tra altri spunti interessanti, ha espresso la perplessità del trattare in forme architettoniche il tema della trascendenza in quanto tale.

Nel pomeriggio l’intervento appassionato di Antonio Paolucci ha mostrato come una porta di chiesa possa essere gremita di significati simbolici; quindi è intervenuto Paul Janowiak con la presentazione del suo studio “Riti sulla soglia”; in conclusione, Aimaro Oreglia d’Isola ha proposto un itinerario attraverso alcune chiese “vissute, più che viste, da fuori”: ciò che più è interessante, dal suo punto di vista, è la vita di chi si trova fuori dalla soglia.

Dopo cena, per condividere insieme l’ultima sera del convegno, i partecipanti sono stati invitati dalla comunità a festeggiare nel salone dell’accoglienza, in compagnia di qualche dolce e del buon vino.

Foto e sintesi dei lavori del 2 Giugno

Oggi a Bose si è aperto il XIV Convegno liturgico internazionale. Il tema, “Viste da fuori. L’esterno delle chiese”, è stato scelto “ripensando al primo problema che ci siamo posti quando abbiamo costruito la chiesa di Bose: cosa avrebbe detto agli abitanti di Magnano la nuova costruzione? Ciò che avrebbero visto i passanti sarebbe stato determinante per la definizione della nostra identità” introduce il priore fratel Enzo Bianchi; “Per noi, alla fine, è stata decisiva l’ispirazione cercata nelle Scritture: una tensione tra nascondimento e visibilità (Mt 5,13-16)”. Valerio Pennasso ha parlato del rapporto tra chiesa e comunità a partire da un caso specifico, quello di Cherasco. Sono seguite le relazioni di mons. Nunzio Galantino e di mons. Dario Viganò, “Costruttori di Chiesa” e “La chiesa in scena. Lo sguardo del cinema sulle chiese”.

Le relazioni del pomeriggio, di taglio architettonico, sono state presentate da Birgit Kastner, Bert Daelemans e da Paolo Portoghesi: “L’immaginario delle chiese nell’architettura contemporanea. Tenda, barca, manto, fabbrica...”, “L’eloquenza della forma. Riconoscibilità nella pluralità di forme”, “Plasmare una chiesa”. La ricchezza dei contributi ha suscitato, nella sessione pomeridiana, un dibattito vivace.