Il pentimento: volgersi a Dio con speranza

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Quando ci comportiamo male' e diciamo ciò che non va detto, quando pensieri oscuri mina­no la nostra mente o un velo nero si stende sul nostro cuore, se arriviamo a fare appena appena un po' di luce in noi, allora sentiamo i primi ri­morsi di coscienza. Ma il rimorso non è ancora pentimento; noi possiamo passare tutta la vita a rimproverarci la nostra cattiva condotta in azio­ni o in parole, i nostri pensieri e i nostri sen­timenti tenebrosi, e non per questo emendarci...

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Vincere in noi ciò che è estraneo a Dio

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Il giudizio definitivo della nostra coscienza non appartiene né a noi, né a quelli che ci co­noscono, ma a Dio. L'evangelo ci illumina sulla sua parola, sulla sua giustizia; eppure noi rara­mente sappiamo fare riferimento a esso con di­scernimento e con piena trasparenza. Se leggia­mo attentamente le pagine dell'evangelo con sem­plicità di cuore, senza cercare di trarne più di quanto siamo capaci di ricevere...

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Siete venuti a con­fessare i vostri peccati

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La confessione personale deve limitarsi alla mia persona, perché è il mio destino personale a essere in gioco. Per quanto possa essere imper­fetto il giudizio che proferisco su me stesso, è da qui che bisogna cominciare, e bisogna farlo chiedendosi: di che cosa mi vergogno della mia vita? Quali sono le cose che voglio nascondere di fronte al volto di Dio, o che voglio nasconde­re di fronte al giudizio della mia stessa coscien­za e che mi fanno paura?...

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Non riesco a staccarmi dai miei peccati!

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Talora si sente dire: "Non riesco a staccarmi dai miei peccati! Se avessi commesso qualche grave peccato forse ne sarei rimasto scosso, ma tutto l'insieme dei miei peccati non pesa su di me più di un velo di polvere. Ci si abitua, come ci si abitua a vivere nel disordine del proprio ap­partamento". Non ci rendiamo conto che certe volte è più difficile sbarazzarsi di una quantità di peccati piccoli che di un solo peccato grave...

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Accogliere il perdono

Perdonare a se stessi è impossibile. Nessuno ha il diritto di dire: "Ho commesso un peccato, il mio comportamento verso quella tal persona è stato indegno, mi sono macchiato, ma questo appartiene al passato, ora posso non pensarci più". Sarebbe come legittimare la propria con­dizione di peccato, affermare il diritto di essere indegni di se stessi, di Dio, del prossimo, della vita. Per questa ragione l'uomo non può mai perdonarsi da solo, né possiede il diritto di per­donare se stesso. D'altra parte - e questo è al­trettanto importante -, l'uomo deve essere in grado di accogliere il perdono che gli viene ac­cordato. Noi non abbiamo il diritto di respinge­re, di rigettare, di sconfessare il perdono accor­datoci, e accordatoci sempre a un certo prezzo, da Dio o da una persona. Quando la persona che abbiamo offeso, dopo aver superato lo stra­zio della sua sofferenza, ci dice: "Che la pace sia ora tra noi, la ferita che mi hai inflitto si è cica­trizzata, il dolore è passato, avresti potuto ucci­dermi ma per grazia di Dio sono rimasto vivo, ti amo abbastanza per accordarti quella pace che il Signore ha deposto nella mia anima", noi dob­biamo allora essere in grado di fare la pace e di accogliere il perdono.

Spesso è il nostro orgoglio a impedirci di ac­cogliere il perdono: come posso accoglierlo, e nello stesso tempo riconoscermi realmente col­pevole? Sono cosciente che non posso fare nulla per me e che solo colui che ho avvilito, offeso, spogliato, può ristabilirmi nella mia dignità di uomo. Come posso dipendere dagli altri fino a tal punto? Può essere molto difficile accogliere il perdono proprio a causa di questo orgoglio, per­ché noi non vogliamo essere ristabiliti nella no­stra dignità per effetto della compiacenza altrui, vogliamo possedere in noi stessi questa dignità, oppure acquisirne il diritto grazie ai nostri sfor­zi. Ma il diritto al perdono è qualcosa che nes­suno ha mai acquisito con le proprie forze, pro­prio come nessuno ha mai acquisito il diritto di essere amato. Ricevere il perdono significa sem­pre che qualcuno ci ha amato abbastanza da pren­dere su di sé il nostro peccato ed eliminarlo in se stesso. Ecco perché dobbiamo essere pronti a sot­tometterci, a ricevere questa umiliazione salvifi­ca. E solo nella misura in cui potremo riceverla con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra co­scienza, noi saremo sulla via della guarigione.
E così che Cristo ha "guarito" Pietro, cioè ha ristabilito nella sua integrità colui che era cadu­to in pezzi a causa del suo rinnegamento. In cer­to qual modo egli ha raccolto insieme tutti quei pezzi, e ne ha fatto un uomo integro. Questo spiega perché Pietro possa poi parlare con Cri­sto con tanta confidenza, come da pari a pari. Quando il Salvatore gli dice: "Seguimi!" (cf. Giovanni 21,15-23), Pietro lo segue ma, volgendosi, scor­ge a una certa distanza Giovanni e chiede al Sal­vatore: "E a lui che cosa succederà? Tu mi hai restituito alla vita; non ha forse bisogno anche lui di essere restituito alla vita?". Qui il Salva­tore lo riprende con severità: "Quello che farò con lui riguarda me; tu seguimi". Queste parole Gesù le rivolge anche a ciascuno di noi, a condi­zione che siamo passati attraverso questa prova del fuoco, che siamo stati consumati dalla ver­gogna, che abbiamo accettato di accogliere quel dolore acuto e indicibile che può colpirci quan­do prendiamo coscienza della nostra condizione di peccato.

Ha inizio allora la gioia, gioia del pentimen­to. Nel libro del padre Sofronio su Sil­vano del monte Athos l'autore racconta che un ragazzo del villag­gio di Silvano commise in giovinezza un delitto e fu rinchiuso in prigione dove scontò la pena; in seguito Silvano vide questo ragazzo suonare la fisarmonica e danzare a una festa del paese. Rimase scandalizzato e gli si avvicinò per dirgli: "Come puoi danzare e rallegrarti dal mo­mento che hai ucciso un uomo!". E quell'ex cri­minale gli rispose: "E vero; ma mentre ero in prigione mi sono pentito completamente, e d'un tratto ho sentito che Cristo mi perdonava; ora sono una nuova creatura".

Ecco cosa può compiere il pentimento: una vi­ta nuova, una restaurazione, una nascita dall'al­to. Questa può essere anche solo parziale, o sem­plice preludio alla vita eterna, ma alla vita eter­na che viene con potenza e che pervade l'uomo intero.

A Bloom, {link_prodotto:id=338}, Qiqajon, Bose 2002

Non so che co­sa confessare

Succede di frequente che qualcuno vada a confessarsi dicendo: "Non so che co­sa confessare, è sempre la stessa cosa". Queste parole denotano una colpevole carenza di atten­zione nei confronti della vita. Alla sera di una qualunque giornata, c'è qualcuno di noi che può davvero dire di aver compiuto tutto quello che era possibile, di aver attivato tutte le sue capaci­tà, di aver avuto pensieri e sentimenti di purez­za irreprensibile, di non aver trascurato nessu­na attività che poteva e doveva compiere, e che neanche una delle sue azioni sia stata toccata dall'imperfezione? Chi può dire che i suoi pen­sieri non sono stati confusi, che il suo cuore non si è offuscato, che la sua volontà non ha vacilla­to, che il suo comportamento e i suoi desideri non sono stati toccati dall'indegnità?

Se qualcuno viene a confessarsi dicendo: "Non so cosa dire", questo significa che egli non ha mai riflettuto a quello che potrebbe - e di con­seguenza dovrebbe - essere, e che si accontenta di confrontarsi con ciò che era il giorno prima, o con altre persone malvagie quanto lui.
E quando diciamo che anno dopo anno ve­niamo a ripetere sempre le stesse cose, questo prova che non abbiamo mai provato né vergogna né dolore, e accettiamo con una perfetta indif­ferenza la nostra condizione di peccatori. "Ef­fettivamente io mento, ma tutti mentono! Sono causa di scandalo, ma tutti sono causa di scan­dalo! Dimentico Dio, ma come faccio a ricor­darmi di lui? Davanti a quelli che hanno biso­gno di me passo oltre: ma andiamo, non ci si può fermare davanti a ognuno!". E via di segui­to... Se potessimo anche solo una volta vedere - come Dio le vede - le conseguenze dei nostri atti o della nostra inazione! Se solo potessimo vedere quali conseguenze possono generare nel­la vita altrui una parola detta o non detta, l'ese­cuzione o la non esecuzione di un atto, vedere fino a che punto una parola può rivelarsi decisi­va nel destino di un uomo, o un servizio reso prontamente in quello di un altro!

Ma se diamo prova di una tale indifferenza verso noi stessi, è evidente che daremo prova di un'indifferenza ancor maggiore verso gli altri; ciò che avviene loro ci lascia completamente estra­nei. Ecco perché veniamo a confessare sempre le stesse identiche cose, perché non ci siamo ac­corti neanche una volta che esse ci rendono mo­struosi, che noi cessiamo di essere a immagine di Dio, quell'immagine che è inscritta nelle pro­fondità del nostro essere. L'immagine ci è stata in qualche modo affidata, e di volta in volta la distruggiamo, la oscuriamo, la profaniamo, sia con la nostra negligenza, sia per qualche acces­so di cattiveria, e non si tratta assolutamente di una cattiveria passionale, ma di una cattiveria mediocre, insignificante.

A. Bloom, {link_prodotto:id=338}, Qiqajon, Bose 2002

Sì, io ti amo!

Quando si prende coscienza del proprio peccato, sono due i pericoli da evitare: da un lato quello di cadere nella disperazione, dall'altro, al contrario, quello di assuefarsi alla propria con­dizione. Si ripensi al racconto evangelico in cui Pietro si vanta dicendo che avrebbe seguito il suo Salvatore fino alla morte e che nessuno avrebbe potuto allontanarlo da Cristo. Una volta che il Salvatore fu gettato in prigione, citato a compa­rire dinanzi a un tribunale iniquo, si avvicinò a Pietro una giovane serva che non poteva arre­cargli danno se non a parole, e che gli chiese se per caso non fosse discepolo di Gesù il Nazare­no. Ed egli lo negò per tre volte! Poi si allon­tanò, uscì nel cortile, ma voltandosi, attraverso una finestra aperta, il suo sguardo incontrò quel­lo del Salvatore, e allora pianse amaramente.

Solo quando Pietro viene improvvisamente travolto dalla vergogna per il suo rinnegamento, il suo tradimento, la sua viltà, la sua infedeltà, le sue affermazioni spavalde, solo allora il suo cuore cade in preda all'orrore ed egli si allontana colmo di amarezza. Ma quando incontra di nuo­vo il Salvatore, questi non gli dice: "Non hai vergogna? Come osi presentarti dinanzi a me dopo avermi rinnegato tre volte?". No, Cristo gli fa invece un'altra domanda: "Pietro, mi ami tu più di costoro?" (cf. Giovanni 21,15-19), cioè degli altri apostoli presenti in quel momento. Ma una tale domanda, se cioè Pietro ami Cristo, dal momento che tutto mostrerebbe che non lo ama perché l'ha rinnegato, può davvero essere posta? Si può addirittura dire che Pietro sarebbe capa­ce di amarlo più degli altri discepoli? Questi ul­timi non l'hanno certo rinnegato: sì, sono fuggi­ti, ma non sono arrivati al punto da rinnegarlo. Se almeno Pietro si fosse ricordato delle parole pronunciate dal Salvatore in un'altra occasione: "Colui al quale si perdona molto, ama molto" (cf. Luca 7,47)! Se a uno si perdona molto, in lui nasce un amore più grande che in colui al quale si perdona poco. La questione si pone in questi termini: "Tu hai peccato più gravemente degli altri, e questo può esserti perdonato; il tuo amo­re sarà all'altezza di questo perdono? Saprai amare a tua volta più di colui che ha peccato me­no di te?". Ciò che qui è in gioco è l'amore, per­ché il Signore sonda le profondità dell'uomo, e non si ferma alle apparenze esteriori come fac­ciamo noi. Quando un uomo compie una cer­ta azione, pronuncia una certa parola, noi in­terpretiamo quell'azione o quella parola a modo nostro. Cristo invece vede nel profondo, e sa quale uomo si nasconde dietro quella tale azione o parola. Non si lascia sviare da ciò che appare in superficie, o sembra addirittura evidente. Ec­co perché si rivolge all'essere profondo di Pie­tro, che per paura si era per un momento chiuso in se stesso, ma poi si era riaperto per la ver­gogna bruciante, quando era stato bruscamen­te messo di fronte alla propria coscienza e al­lo sguardo del Salvatore. A questo punto, tutto preso dalla gioia di trovarsi nuovamente dinanzi al volto di Cristo, di vedere che la riconciliazio­ne è possibile, che tutto è possibile, persino la resurrezione, la risalita dagli abissi della morte, Pietro dice a Cristo: "Sì, io ti amo!". E a tre ri­prese Cristo lo interroga su questo amore, pro­prio come in tre momenti successivi Pietro l'a­veva rinnegato. E la terza volta Pietro approda finalmente alla consapevolezza di un'altra real­tà: il suo amore è nascosto mentre il suo rinne­gamento manifesto, e allora si volge verso Cri­sto dicendogli: "Signore, tu sai tutto! Sai che ti ho rinnegato, ma nell'atto stesso in cui poni il problema dell'amore, questo significa che tu sai che, malgrado tutto, io ti amo... Sì, io ti amo!".
A questo punto si compie il processo del pen­timento. Il peccato è stato commesso, c'è stata la caduta, l'uomo ha finito per coprirsi di vergo­gna; la sua coscienza e lo sguardo del Signore su di lui glielo hanno fatto conoscere. Ed egli ha ri­sposto a quello sguardo e a quel giudizio della coscienza con l'orrore del disgusto verso la pro­pria persona e versando lacrime. Ora l'amore di Dio può rialzarlo.

A. Bloom, {link_prodotto:id=338},
Qiqajon, Bose 2002