Viaggiare è attraversare frontiere

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Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forme, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle...

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Il camminare di Gesù

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Gesù non è un uomo di città, ma nemmeno l’abitante sedentario di un villaggio. Frequenta i piccoli centri,ma nessuno di essi diventa la sua sede stabile. Sceglie di vivere solo provvisoriamente e brevemente in un posto, spostandosi da luogo a luogo. Camminare è il suo modo per entrare in contatto con la gente...

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Lucidità nella fedeltà

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“Ti seguirò” (Luca 9,57). Rispondendo a colui che passa per la strada, l’uomo generoso corre questo rischio: “dovunque tu vada”. Non fa nessuna riserva. Si offre con tutto lo slancio risvegliato dalla presenza del Signore ancora nascosto e già rivelato nel piccolo gruppo di coloro che fanno strada con lui...

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Viaggio e alterità

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L’odissea di Ulisse rappresenta in un certo modo il viaggio circolare, espressione di un mondo chiuso, finito. Qui il viaggio è sempre un partire da casa e un tornare a casa, e il vissuto del viaggio si esprime anche nel sentimento della lontananza dalle proprie radici. Il viaggio è qui diverso dal vagabondaggio, perché non è un andare senza meta...

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Preghiera per i viandanti

Signore, all’alba della nostra vita
noi sapevamo di appartenere soltanto a te
volevamo camminare con passo deciso verso di te.

Non sapevamo che la stella illumina differenti sentieri
non sapevamo che risplende anche in acque stagnanti
non pensavamo che brillasse sui buoni e sui cattivi.

Non conoscevamo le vie tortuose e impervie
i vicoli ciechi e i lacci nascosti per farci cadere
le strade impraticabili e i torridi deserti.

Non sapevamo di essere solo dei viandanti
dei pellegrini a un tempo itineranti ed erranti
dei nomadi in cerca di terre del cielo.

Signore, concedici di partire e trovare sorgenti
di non lasciarci attirare dall’acqua stagnante
di non perdere il gusto dell’acqua di fonte.

Resta sempre accanto a noi nel nostro cammino
per sostenerci nella ricerca del tuo volto di luce
per guidarci di notte con il fuoco e di giorno con la brezza.

Quelli che si sono smarriti ritornino a te
quelli che non ti hanno conosciuto possano incontrarti
quelli che sono morti si ritrovino in te.

Comunità di Bose

L’avventura della persona umana

L’essere umano cresce in primo luogo nel seno di una madre, poi ne esce. Cresce in seno a una famiglia dove si tessono, a poco a poco, fin dall’infanzia e anche prima, dei legami esterni ma sopratutto interni: con la madre, il padre, i fratelli, le sorelle, la famiglia. Legami necessari, riferimenti indispensabili, benché a volte posano essere distorti. Viene poi il giorno in cui questi legami, qualunque essi siano, imprigionano e soffocano più di quanto permettano di vivere, poiché vengono riprodotti senza sosta con varianti il più spesso inosservate ma che compromettono lo stesso il pieno sviluppo di nuove relazioni. Alcuni non percepiscono questi legami complessi e si piegano alla loro legge. Senza neppure saperlo chinano la testa, votandosi a un’infelicità che a volte chiamano felicità. Non c’è altra via d’uscita per loro. Altri vedono questi legami, ma la loro pressione è tale che la paura è più forte e si rassegnano  a quella che sanno essere un’infelicità. Per loro la ruota continua a girare, e i legami a incatenare, e non solo loro stessi. Infatti, secondo il decalogo, il difetto di libertà dei padri si riporta sui figli e su tre e quattro generazioni (Esodo 20,5). Alcuni, che hanno percepito questi legami, decidono di scioglierli pazientemente. Corrono il rischio – non senza paura, poiché è necessario che vincano molte resistenze interne ed esterne – di morire a un certo modo di essere nel quale si esiste in funzione di, sotto lo sguardo di, secondo il desiderio di… Morire alla morte, tant’è vero che “ciò che conduce alla morte è quel giro nel quale prendo in prestito l’occhio di un altro per negare me stesso” (Paul Beauchamp).

È il rischio  di nascere a se stessi per vivere in prima persona, secondo il proprio desiderio. A è possibile da soli? Questo rischio può forse essere corso senza una parola che permetta di credervi e della quale fidarsi? E ancora, da dove vengono questa chiamata interiore, questa energia a rischiare ciò che siamo, questa forza che rifiuta di essere ridotta a vivacchiare? Da dove viene quella follia che permette di credere che il pertugio non è un vicolo cieco, che nessun muro interiore è definitivamente insormontabile, che il morto può partorire un vivo e lo schiavo un uomo libero? Domande di questo tipo non s’impongono, ma è permesso formularle. Rischiando una risposta, alcuni parlano di energia vitale; altri di qualcosa che nell’uomo supera l’uomo, di trascendenza; altri ancora di Dio… Così, penso, san Giovanni: “Nessun, a meno di nascere di nuovo può vedere il regno di Dio” (Giovanni 3,3). Per l’evangelista, l’autentica conoscenza di Dio è legata alla nuova nascita. Quando dice che ci vuole questo passaggio per vedere come Dio regna, egli sceglie di chiamare “Dio” ciò o colui da cui l’uomo riceve di nascere vivo e libero allorquando sceglie di affrontare la morte (A. Wenin, L’uomo biblico Edb, Bologna 2005, pp. 92-93).