Chiedere perdono per costruire pace e giustizia

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Chi chiede perdono, e perché? A chi spetta concederlo? Per un cristiano, la richiesta di perdono per colpe commesse dai suoi “padri” non è frutto di una “strategia”, non è un’arma da usare per ottenere altrettanto dall’avversario, non è una sorta di “patteggiamento di pena”, ma è l’espressione di una consapevolezza, di una convinzione profonda che, illuminata dalla parola di Dio, porta a esclamare: “Anch’io e la casa di mio padre abbiamo peccato” (Ne 1,6), nasce da una convinta solidarietà con le generazioni che lo hanno preceduto nella fede e nella testimonianza cristiana. Nessun calcolo, quindi, nessun soppesare l’efficacia di una dichiarazione, nessuna pretesa di contraccambio, ma il dar voce a un cuore contrito, il sentirsi parte di una comunione di santi e di peccatori.

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Il poema della luce

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Se nella Bibbia la luce è legata al genere letterario del racconto, lo è altresì a quello della poesia. Vi è infatti qualcosa del mistero della luce, e soprattutto del mistero biblico della luce, che può dirsi solo poeticamente. La potenza della poesia è tale che, nello spazio e nel reticolo di qualche parola, un mondo si dischiude sotto i nostri occhi. Così il versetto 10 del salmo 36: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce”. Così Dio è la vita sotto la vita, l’acqua viva sotto la vita. O meglio, come si aggiunge nella seconda parte del versetto, è la luce della luce. Vedere la luce creata significa partecipare al dono di un Creatore che è lui stesso luce. Solo la poesia può osare una tale scorciatoia espressiva. Noi ci troviamo fra luce e luce, noi che “vediamo.

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Vedere più lontano

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I sensi resterebbero impotenti a metterci in movimento se un desiderio non li legasse al loro oggetto. La Bibbia presenta l’uomo come un essere di desiderio, assetato di felicità, assetato di Dio. Il desiderio è il motore che permette all’uomo, nel corpo e con il suo corpo, di innalzarsi a Dio, che è l’“oggetto” ultimo della nostra concupiscenza: “Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore non ha riposo finché non riposa in te”, canta Agostino. Massimo il Confessore non esita a dire che il desiderio dell’uomo troverà pace solo nel godimento di Dio, nell’esperienza sensibile di lui. Tale affermazione − che si radica nell’insegnamento della Bibbia − evidenzia l’unità fondamentale della persona chiamata, nella sua anima e nel suo corpo risorto, a godere di Dio. Dunque anche i sensi dell’essere umano non sono fatti per le mezze misure: così come il suo desiderio e la sua capacità di godimento, essi sono proporzionati a Dio. È appunto a livello di vocazione, questa nobilissima vocazione dei sensi corporei nel disegno di Dio, che si definisce il dramma del loro uso improprio. Se gli esseri umani si chiudono nel proprio godimento, scambiano i mezzi per il fine e si può allora dire con Paolo che “il ventre è il loro Dio” (Fil 3,19). È in questa capacità illimitata di bene o di male che risiede il bel rischio dell’uso dei sensi. Per questo è sempre necessario operare un discernimento. Bisogna distinguere due livelli: quello del corpo e della sensibilità da una parte, che aprono l’uomo all’incontro con l’altro e lo portano a compiere la sua vocazione, e quello della “carne” e della sensualità dall’altra, che possono rinchiuderlo nel godimento immediato e incentrato su di sé. Per non aver saputo discernere a sufficienza questi due livelli, talora si è confuso in modo grottesco − sia nella chiesa che fuori − ciò che aveva a che fare con il corpo con ciò che aveva a che fare con il peccato. È pur vero che il vocabolario del Nuovo Testamento stesso può apparire confuso. Quando si parla di “carne”, si parla della carne di Cristo (“Il Verbo si fece carne”: Gv 1,14), cioè di questa umanità nella sua condizione fragile di creatura, umanità che in Cristo diventa strumento di salvezza; o della “carne di peccato”, realtà astratta distinta dal corpo, nella quale si manifesta il peccato dell’uomo? È necessario conoscere questo retroterra biblico per interpretare correttamente i testi dei padri della chiesa e comprendere a quale “carne” si riferiscono. Per aver ignorato tale distinzione si è arrivati a sostenere che il cristianesimo propugna un “odio del corpo”, cosa che è un controsenso assoluto. L’accoglienza del sensibile nella vita spirituale è sempre stata oggetto di un animato dibattito all’interno della chiesa. È pertinente contrapporre fortemente i sensi spirituali ai sensi corporali? Non si potrebbe far emergere una continuità nel loro esercizio? Certo, qualcosa nei nostri sensi corporali qui sulla terra è legato alla figura di “questo mondo che passa” (cf. 1Cor 7,31), ma questo non ci impedisce di concepire un esercizio spirituale dei nostri sensi corporali, nella misura in cui Dio, che si è incarnato, da quel momento e per sempre si consegna in modo tale da essere percepito in maniera sensibile. Personalmente rimango nella convinzione che ogni mistica − anche le mistiche non cristiane, che tutte tendono verso l’unico mistero − è anticipazione della resurrezione finale dei corpi, la cui bellezza si offre già per un’esperienza di tutto l’uomo nel contatto con il corpo del Cristo risorto. Ed è proprio attraverso questo contatto, questo “corpo a corpo”, che l’uomo viene divinizzato. Questo presuppone una “trasfigurazione” dei nostri sensi corporali mediante la fede e il dono dello Spirito santo. Essi possono allora aprirsi alle realtà divine e vedere nel Cristo qualcosa di più di un semplice uomo; ma anche nella Scrittura santa qualcosa di più di semplici parole umane e nella creazione qualcosa di più di un dato materiale “in-significante”. Vedere più lontano, dunque, ma non vedere altro: è proprio vedendo Gesù di Nazaret che vediamo Dio, ascoltando le parole umane della Bibbia che ascoltiamo Dio.

Philippe Markiewicz, Ferrante Ferranti, Pietre vive

Pentecoste: un lievito di bontà

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Dopo la trasgressione di Adamo i pensieri dell’anima si sono dispersi lontano dall’amore di Dio volgendosi al mondo presente, mescolati a pensieri materiali e terreni. Ma come Adamo, mediante la trasgressione, accolse in se stesso il cattivo lievito delle passioni, così per partecipazione tutti quelli che sono nati da lui e tutta la razza di Adamo hanno parte a quel lievito. Il cattivo lievito delle passioni era stato impastato con la razza del vecchio Adamo.

Allo stesso modo piacque al Signore nella sua discesa sulla terra patire per tutti, tutti acquistare con il proprio sangue e deporre un celeste lievito di bontà nelle anime credenti umiliate dal peccato, e così compiere in esse ogni giustizia dei comandamenti e tutte le virtù in crescente progressione finché non fossero impastate in una sola pasta nel bene e divenissero un solo Spirito con il Signore, secondo la parola di Paolo poiché, nell’anima tutta penetrata dal lievito dello Spirito divino, non può neppure formarsi una qualche idea del male e della malizia, come è detto: “la carità non pensa il male”. Senza il lievito celeste, cioè la potenza dello Spirito divino, l’anima non può essere fermentata dalla bontà del Signore e giungere alla vita.

Se uno impasta la farina senza mettervi del lievito, può ben impastarla, amalgamarla e lavorarla con ogni cura, ma l’impasto è azzimo e sgradevole da mangiare; se invece vi si mette del lievito, esso attira a sé tutto l’impasto e tutto lo fa lievitare … E ugualmente con la carne: se la si tratta con ogni cura ma non la si sala con il sale che distrugge i vermi e fa scomparire il cattivo odore, puzza, va in putrefazione e non può essere utilizzata per gli uomini. Allo stesso modo supponi che l’umanità intera sia la carne o la pasta, che il sale e il lievito siano la divina natura dello Spirito santo che proviene da un altro mondo: se nell’umana natura umiliata non vengono deposti e impastati il celeste lievito dello Spirito e il buono e santo sale della divinità provenienti da quell’altro mondo e da quell’altra patria, l’anima non muterà il cattivo odore della malizia e non sarà lievitata separandosi dalla pesante malvagità priva di lievito.

Per quanto grandi cose l’anima si immagini di fare da se stessa, quale che siano il suo zelo e la sua sollecitudine, se confida soltanto nelle proprie forze e ritiene di riuscire perfettamente nel suo intento senza la collaborazione dello Spirito, di molto si inganna. Non è idonea alle dimore celesti, né al regno, se ritiene di conseguire la perfetta purezza da se stessa con le sue sole forze, senza lo Spirito. Se l’uomo trascinato dalle passioni, dopo aver rinnegato il mondo, non si avvicina a Dio e non crede con speranza e pazienza di ricevere un bene estraneo alla propria natura, cioè la potenza dello Spirito santo, e se il Signore non infonde dall’alto la vita divina nell’anima, quest’uomo non sperimenterà la vera vita, non si riavrà dall’ebbrezza delle cose materiali; la luce dello Spirito non brillerà nella sua anima ottenebrata, né vi farà risplendere il santo giorno. Costui non sarà mai risvegliato dal profondissimo sonno dell’ignoranza così da giungere a conoscere Dio in verità per la potenza di Dio e l’energia della grazia.

Se l’uomo non è reso degno mediante la fede di ricevere la grazia, non è adatto né pronto per il regno; e di nuovo, se ricevuta la grazia dello Spirito, non se ne discosta in nulla né le reca offesa con la sua negligenza e le sue azioni malvagie e se così perseverando in una lunga lotta non rattrista lo Spirito, potrà giungere alla vita eterna. Come si avvertono le energie del male provenienti dalle passioni – la collera, la concupiscenza, l’invidia, il torpore, i pensieri malvagi e gli altri disordini – così occorre avere percezione della grazia e della potenza di Dio nelle virtù – nella carità, nella mitezza, nella bontà, nella gioia, nella leggerezza e nell’esultanza divina – affinché l’anima possa essere resa somigliante ed essere congiunta alla natura buona e divina, alla dolce e santa energia della grazia. Se la nostra buona disposizione, dopo aver dato prova nel corso del tempo e degli anni di progredire e di crescere, rimane sempre unita alla grazia e risulta accetta, dimora sempre di più nello Spirito con tutta se stessa e così, fatta santa e pura per opera dello Spirito, diventa degna del regno.

 Pseudo-Macario, Spirito e fuoco. Omelie spirituali

Ascensione: aurora che rischiara

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Come conosciamo il Signore? Chi è veramente per noi Gesù? Egli ci sembra sempre lontano, assente. Non è affatto evidente nelle nostre vite: non lo vediamo, non lo udiamo, non lo tocchiamo. E in fondo cosa accadrebbe anche qualora potessimo vederlo, udirlo, toccarlo? Egli sarebbe al di fuori di noi, sarebbe altro. Certo, lo è, ma lo sarebbe in maniera impenetrabile. E allora, rimarremmo nella nostra solitudine, nella nostra scissione. La miglior prova di questo è che gli altri non sono lontani, non sono assenti: li vediamo, li udiamo, li tocchiamo, eppure restano impenetrabilmente al nostro esterno, e ciascuno va avanti pian piano ma risolutamente nella propria solitudine e nella propria scissione. Se comprendessimo questa evidente realtà, comprenderemmo anche che il nostro Dio non sta sulle nuvole. L’immagine del “cielo” che viene spesso impiegata, soprattutto ai nostri giorni, è l’immagine di questo meraviglioso “Altro” che è il Dio vivente, il quale tuttavia non è altrove: è qui, eppure è totalmente altro. E comprenderemmo pure che il nostro Dio non è al di fuori della nostra condizione umana: è realmente in mezzo a noi, si è fatto carne. Quello che oggi siamo chiamati a contemplare è la meraviglia dell’uomo trasformato in lui. Questa festa dell’Ascensione è la grande festa della sua verità, di quella verità verso la quale lo Spirito di verità cerca incessantemente di condurci (cf. Gv 16,13), una verità insondabile, inesauribile, come l’amore con cui siamo amati: è la verità della sua condizione carnale, umana, umile … Egli è veramente colui che possiamo raggiungere e toccare al di là di ogni contatto, che possiamo ascoltare al di là di ogni suono, che possiamo vedere al di là di ogni visione. Perché? Perché si è abbassato fino ad assumere la nostra condizione, e la nostra condizione di schiavi: fino alla morte, e fino in fondo alla nostra morte. È questo che continua a scandalizzarci, che non sale dal fondo del nostro cuore, che non assomiglia a nulla di ciò che conosciamo. Ecco allora perché, in questa ascensione del Signore, nella sua esaltazione, c’è per noi un capovolgimento necessario da operare. Il Signore, infatti, non è lontano, non è assente. Lo si vede, lo si ode, lo si tocca. Egli è dentro di noi, non è altro. Ci penetra e noi siamo in lui. Non vi è più né solitudine né scissione.

Questo capovolgimento sta nel fatto che ciascuno di noi in verità può scoprire che la propria umanità non è più soltanto la propria. Nei suoi più piccoli dettagli, in tutte le sue pieghe, anche in quelle minime, nelle sue complicazioni o nelle sue piccole illuminazioni, la mia umanità è quella di Cristo. È lui ad assumerla, a farla sua. E io posso vederlo e scoprirlo solo perché la sua presenza sale, come il sole dell’ascensione, come un’aurora che rischiara a poco a poco anche il più piccolo anfratto della nostra terra, e che illumina da dentro questa dimora del Dio vivente costituita da ciascuno di noi.

La mia umanità non è più mia, è sua. Allora io chi sono? Che cosa sono? Ebbene, è la sua meraviglia, la sua divinità diremmo in termini tecnici, è la sua meraviglia a diventare la mia vita. Ecco lo sradicamento, la lacerazione necessaria della croce e della morte per passare alla vita: non essere più se stessi ma diventare lui, perché egli non si appartiene più ma ormai appartiene a noi. “Non sono più io a vivere”, dice Paolo, e ciascuno di noi è chiamato a riscoprirlo, “ma è Cristo che vive in me”. In fondo, il nostro capovolgimento non è altro che il movimento mediante il quale il Verbo adorabile del Padre è diventato nostro una volta per tutte; è il movimento stesso della sua umiliazione, di quell’umiltà che ci fa diventare grandi, di quell’abbassamento attraverso il quale veniamo innalzati. Ecco la verità compresa in ogni istante dell’ascensione del Signore. Noi viviamo la sua ascensione solo nella misura in cui viviamo la sua umiliazione.

Il Signore non è lontano, egli è presente istante dopo istante, nelle nostre umanità. È altro da noi, certo, è Gesù, senza confusione, ma è la nostra umanità ad esser diventata sua … La nostra vera vita è nascosta nel Padre. È là che diverremo noi stessi se acconsentiremo a essere trasformati. È là che il nostro essere diverrà come una domanda, una richiesta essenziale, un gemito che raccoglierà in sé tutte le invocazioni degli uomini; un gemito che, mettendoci in comunione con gli altri, farà del nostro respiro secondo lo Spirito una continua intercessione.

Jean Corbon, La gioia del Padre. Omelie per l’anno liturgico dall’evangelo secondo Luca

Resurrezione: speranza resa possibile

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La resurrezione è al cuore della storia, è il fondamento della fede, la realtà più essenziale e indispensabile che dà consistenza a tutto il resto, senza la quale tutto va a fondo. Nel contempo, sembriamo però aver paura della resurrezione: è troppo bello o troppo difficile o troppo lontano. Abbiamo paura di parlarne. E tuttavia se ne parliamo in modo sentito, con passione, l’essere umano si apre e il suo sguardo si illumina. Infatti l’essere umano ha dentro di sé una sete profonda di vita, di resurrezione, di assoluto. L’essere umano ha bisogno di un linguaggio pasquale, ha bisogno di farsi uno sguardo pasquale, ha bisogno della resurrezione di Cristo. E non soltanto, ma ha bisogno di sentire e provare la resurrezione di Cristo come una realtà vissuta e dunque possibile, verificabile a partire da una testimonianza, da una vita, dalla realtà concreta di tutti i giorni. L’essere umano ha bisogno di verificare nell’altro la verità della resurrezione di Cristo. Ha bisogno di scoprire e di sentire la speranza come qualcosa di possibile, perché qualcosa di vissuto. Ha bisogno di fare questa esperienza esistenziale della resurrezione di Cristo per interessarsi alla vita e alla propria resurrezione. Non sono i discorsi, né le parole a insegnarglielo … Ora, se c’è un luogo in cui il discorso deve cedere il posto alla realtà vissuta è proprio nell’eucaristia compresa come centro di resurrezione. È senza dubbio importante che l’eucaristia sia la manifestazione del Risorto nel segno del pane e del vino ma, in modo ancora più reale, sia luogo di resurrezione, cioè la manifestazione del Risorto nel segno dell’essere umano, nella sua azione, nella sua vita. Perciò è necessario che l’eucaristia fondi un senso, generi la vita, infonda la vita nell’essere umano, nella sua miseria, nella sua quotidianità, nella carne della sua esistenza. Qui si trova la verità, la verità del Risorto.

Se dovessi dire in poche parole che cosa è per me la resurrezione, direi che è quella realtà senza la quale la mia vita sarebbe priva di senso, una realtà che dà senso a tutta la mia vita e all’essere umano. È la capacità di sperare. Ancor meglio: è la speranza resa possibile; è una speranza audace. E ciò perché Gesù ha vissuto in sé l’intero dramma della morte, lasciandola entrare dentro di sé in tutto il suo orrore, per svuotarla di ogni senso e di ogni contenuto di morte, per fare sorgere dentro quella morte e nella sua totalità tutta la realtà della vita, così che davvero la morte non esista più, non abbia più consistenza … È stata costituita per sempre realtà dell’inutile o dell’assurdo. Ogni morte per avere senso non può che essere generatrice di vita. In questo senso è necessaria e indispensabile, come passaggio obbligato o come dono e accoglienza della vita. Sarà sempre possibile dar senso alla morte aprendola a una pienezza di vita. Questa pienezza di vita è sempre una ritirata delle potenze di morte. È quello che Cristo ha realizzato in sé, alla perfezione, in modo assoluto, una volta per tutte. Questo ci permette di sperare e di vivere la resurrezione oggi niente affatto come un mito o come una realtà semplicemente futura, ma come una presenza che non cessa di essere attiva, perché realmente vera e feconda.

Raymond Johanny, L'eucaristia, cammino di resurrezione

La speranza ha risposto

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Dio non viene all’“umanità” in astratto; il perdono chiama in causa un passato particolare. La grazia non crea un futuro “astratto”: la nuova identità della vita nello Spirito rimane singolarmente particolare. Paolo lo spiega in termini di diversità dei doni dello Spirito (cf. 1Cor 12,4-30), una visione di complementarietà nella quale vita comune e vocazione particolare non costituiscono una minaccia l’una per l’altra. La nuova identità viene specificata come un occupare un posto unico, “non trasferibile”, nella comunità, e il legame interno alla comunità è mantenuto dalla comunicazione e dallo scambio della grazia tra questi punti unici. Potremmo dire che la comunità vive nello scambio non solo di carismi, ma di storie, di memorie. Il mio passato particolare si pone, nella chiesa, come una risorsa per le mie relazioni con i fratelli e le sorelle. Il mio carisma, il dono consegnatomi perché lo offra alla comunità, è il mio io, in definitiva; la mia storia ritornatami per darmi un posto in quella rete di scambio, la ragnatela di doni, che è la chiesa di Cristo. Il mio io esiste per essere dato via nell’amore, non perché sia privo di valore, ma perché è sommamente prezioso, perché mi è offerto dalla mano di quel Dio che mi ritorna la mia memoria. A partire dalla mia vicenda, lo spirito di Gesù risorto costituisce le mie possibilità attuali di comprensione, compassione e condivisione di me stesso. La mia identità di persona che ama nella comunità ha il colore particolare degli amori in cui ho già lottato, fallito, imparato e mi sono pentito: essi compongono il motivo per cui il mio amore attuale è in questa “chiave” o “modalità” piuttosto che in altre, l’irriducibile specificità del mio dono.

“Ama il tuo prossimo in quanto te stesso”: ama in quella modalità che emerge dal passato che è tuo e di nessun altro, partendo da quel processo in cui hai imparato ad accettarti. Comincia a vedere il tuo io come un dono, amalo come un dono, dalla mano di Dio, e impara come anche il prossimo sia un dono, per se stesso o se stessa, e per te. L’umanità “caduta” è come una catena di mutua deprivazione, furto con scasso: qui ora vediamo come l’umanità “redenta” rovesci questo sistema in una catena di mutuo dono, scambio di vita. E il perno è apprendersi come dono, permettendo che esso venga ritornato – per quanta sia, all’inizio, la pena o la vergogna – dal Cristo risorto, udendo il proprio vero nome dalle sue labbra.

“Gesù le disse: ‘Maria’. Lei si voltò e gli disse in ebraico: ‘Rabbunì’ (che significa maestro)” (Gv 20,16). Qui, con rara intensità e sobrietà, Giovanni riunisce per noi i momenti del riconoscimento (o ricordo) di sé e del riconoscimento (o ricordo) di Dio … A Maria viene offerto il suo nome, la sua identità, il nome che la specifica come quella persona con quella particolare storia. E in tale contesto, il proferimento del nome ristabilisce una relazione di fiducia e riconoscimento: Maria improvvisamente vede l’estraneo come colui che in passato l’ha chiamata per nome, ha accettato e affermato la sua identità …

Ma se la speranza, pur mortalmente ferita, è ancora capace di volgersi indietro verso il corpo abbandonato, c’è ancora una scoperta da fare … Quando egli la chiama per nome, lei “si volge” un’ultima volta verso il riconoscimento: Rabbouní; lei, “essendosi volta”, lei “colei che si è volta”, ancora e ancora, verso una speranza sempre più fievole, scopre ora che la speranza ha risposto. Volgersi, sempre daccapo, al nome, alla figura, al ricordo di Gesù, anche quando non può che sembrare astratto e remoto, sfocia quantomeno nel sapere con assoluta chiarezza che è ancora lui a chiamarci alla nostra singolare identità … La conversione è il rifiuto di accettare che la perdita sia la definitiva verità umana. Come qualcosa che cresca sottoterra, anche noi contestiamo il buio e ci spingiamo ciecamente verso l’alto in cerca di luce, verità, casa: ovvero il luogo, la relazione in cui non siamo perduti, in cui possiamo trarre vita da radici che affondano profondamente nella sicurezza. Maria ritorna ciecamente alla tomba, e trova il proprio io, la propria casa, il proprio nome. Maria non è morta perché Gesù non è morto.

 Rowan Williams, Resurrezione. Interpretare l’evangelo pasquale