Vivere altrimenti
Chi siamo noi monaci? Siamo quelli che comprendono le cose, la realtà, il mondo altrimenti. E siccome comprendiamo altrimenti, viviamo anche altrimenti …
Noi monaci siamo là e non abbiamo uno scopo, se non quello di tentare di vivere l’evangelo. Non abbiamo nessuna funzione particolare nella chiesa; altri sono nella chiesa per fare qualcosa: i vescovi e i presbiteri per governare il popolo di Dio, i frati per predicare, le suore per aiutare i poveri e i malati… I monaci sono senza un’opera specifica, non hanno nulla da fare in particolare, nessuna meta, nessun traguardo nella loro vita. Non si fa carriera nella vita monastica, non ci sono promozioni: si resta sempre fratelli e sorelle, poveri laici. “Noi siamo semplici laici senza importanza”, come diceva Orsiesi, discepolo di Pacomio, al vescovo Teofilo di Alessandria.
Quanto all’amore, anche qui c’è un altrimenti. Mentre nella vita normalmente prima si conosce qualcuno e poi lo si ama, i monaci decidono di amare l’altro prima di conoscerlo: l’altro è l’ospite, è il viandante, è colui che chiede di entrare in comunità. Quest’accoglienza universale è possibile anche perché sono celibi. Vivere il celibato dà inoltre ai monaci una libertà e una possibilità ulteriore e diversa di interiorizzazione, di pensiero, di solitudine e di silenzio: tutti strumenti per fare una vita monastica che è ricerca di Dio (cf. Regola di Benedetto 58,7) e, insieme, ricerca dell’uomo (cf. Regola di Benedetto, Prologo 15).
Ogni monaco rinuncia a possedere in proprio qualsiasi cosa. Tutti i beni sono comuni e tra i monaci non circola denaro … Lavorano tutti, per guadagnarsi da vivere e non dipendere da nessuno: tra di loro c’è chi guadagna poco e chi guadagna molto, ma questa differenza non significa nulla nelle relazioni perché tutto è messo in comune, senza che chi guadagna possa trattenere qualcosa per sé. Inoltre tutti, intellettuali e no, fanno lavori manuali: cucinare, lavare i piatti, pulire le case, fare lavori nel bosco o nell’orto. È in queste relazioni, in queste condizioni diverse e diseguali che i monaci tendono all’uguaglianza e alla fraternità, cercando sempre di vivere il primato del comandamento nuovo. Così facendo, giorno dopo giorno imparano ad amare, si esercitano nell’amore, si sentono un corpo, gli uni membra degli altri (cf. Rm 12,5; 1Cor 12,20; Ef 4,25) …
I monaci amano la notte e vivono la notte prima del giorno. Alla sera presto (verso le 20) entrano in cella e vanno a riposare, ma al mattino (tra le 2,30 e le 4,30, a seconda dei monasteri) si svegliano anticipando la luce del giorno e vegliano. Vegliare è la lampada della vita monastica. Non ci si alza presto per fare penitenza, ma per vivere la notte, quel tempo benedetto in cui si è soli, c’è assoluto silenzio e si può ascoltare Dio che parla al cuore. Di giorno il monaco incontra i fratelli, gli ospiti, gli uomini; di giorno il monaco lavora e prega con gli altri fratelli; ma tutto questo avviene dopo alcune ore passate a vegliare nella notte in attesa del giorno.
Questi elementi che costituiscono l’altrimenti della vita monastica convergono in un’istanza centrale, che li riassume e li ri-significa: i monaci vogliono essere una memoria della communitas, un antidoto alle forze centrifughe, disgreganti, individualistiche. Tutto è per loro comune, e la stessa personalità del singolo non deve diventare singolarità contro gli altri o senza gli altri.