In Gesù: per la pace dell’umanità

Leggi tutto: In Gesù: per la pace dell’umanitàTutti gli esseri umani, anche i primitivi e i poco civilizzati, hanno in sé, quale caratteristica di esseri umani che sanno sentire con gli altri, la capacità di formarsi una mentalità umanitaria. Anzi, essa è già presente in loro, come un materiale infiammabile che attende di essere acceso da una fiamma che si avvicini.

Tutta una serie di popoli, appartenenti a una determinata area culturale, è stata educata all’idea che un giorno arriverà un regno di pace. In Palestina questa visione viene espressa per la prima volta dal profeta Amos, nel secolo VIII a.C., e continua a vivere in seguito come speranza del regno di Dio, nella religione ebraica e in quella cristiana. Questa idea appartiene alla dottrina professata dai grandi pensatori della Cina, Laozi e Confucio nel vi secolo a.C. e dai loro discepoli. È sostenuta da Tolstoj (1828-1910) e da altri pensatori europei. È stata considerata un’utopia; oggi però la situazione è arrivata a un punto tale per cui essa, in qualche modo, deve diventare realtà se l’umanità vuole sopravvivere.

Sono consapevole di non aver detto nulla di nuovo, con quanto ho esposto sul problema della pace. Sono convinto che potremo dare una risposta a questo problema soltanto se rifiutiamo la guerra in base a motivi etici, perché essa ci rende colpevoli di disumanità. Già Erasmo da Rotterdam e alcuni dopo di lui hanno annunciato questo principio come una verità da tenere in considerazione.

L’unica cosa che oso rivendicare come originale è che, nella mia visione, questa verità è accompagnata anche dalla certezza che lo spirito del nostro tempo vuole creare una mentalità etica. Con tale certezza io annunzio questa verità, nella speranza di contribuire al fatto che essa non venga messa da parte come una delle tante verità che vengono espresse bene solo a parole ma di cui non si tiene conto in vista della realtà. Infatti alcune verità sono rimaste a lungo prive di efficacia, o anche del tutto inefficaci, solo perchè non è stata presa in considerazione la possibilità che divenissero realtà.

Soltanto nella misura in cui, attraverso lo spirito, si risveglia nei popoli una mentalità di pace, le istituzioni create per mantenere la pace possono realizzare quanto viene loro richiesto e quanto si spera che esse possono fare … Quelli che tengono in mano il destino dei popoli possano riflettere, per evitare tutto ciò che potrebbe peggiorare la situazione in cui ci troviamo e metterci in ulteriore pericolo, e possano prendere a cuore quella meravigliosa parola dell’apostolo Paolo: Per quanto sta in voi, state in pace con tutti (Rm 12,18). Tali parole non sono rivolte soltanto ai singoli, ma anche ai popoli. Possano questi procedere insieme nell’impegno per il mantenimento della pace fino all’estremo limite delle possibilità, in modo che allo spirito rimanga il tempo per rafforzarsi e operare!

Albert Schweitzer, in I cristiani di fronte alla guerra

Gesù: una figura troppo umana?

Leggi tutto: Gesù: una figura troppo umana?I cristiani del nostro tempo non possono riconoscere Gesù vero uomo se non considerandolo come un uomo, un individuo dotato di una propria personalità e libertà, cosciente di sé in quanto uomo, soggetto responsabile della propria storia, e tutto questo credendo nel contempo che il Verbo di Dio era destinato da tutta l’eternità a identificarsi con lui nel tempo, che il Logos preparava da sempre la venuta di Gesù nella storia e si è donato a lui in modo definitivo fin dal primo istante della sua esistenza. Questo dono può essere inteso come il carattere del Figlio di Dio, impresso dal Padre nell’esistenza, nella coscienza e nella libertà di Gesù affinché egli lo riconoscesse come Padre identificandosi, da parte sua e nella sua evoluzione stessa, con la vivente Parola deposta in lui …

Gesù nella storia non ha assunto l’atteggiamento dell’intermediario tra Dio e gli uomini: non ha trasmesso oracoli né messaggi da parte di Dio, né imposto leggi a suo nome, non ha istituito di sua iniziativa un culto nuovo. Perché Dio era in Gesù: parlava agli uomini dall’interiorità di Gesù servendosi delle parole umane che Gesù rivolgeva agli altri, ed è nell’interiorità di Gesù che troviamo accesso a Dio mediante lo Spirito santo che unisce a Gesù, in un solo corpo, quelli che amano i loro fratelli come lui ha insegnato loro a fare. È nella persona e nell’evento Gesù – e in particolare nella sua morte e nella sua resurrezione – che Dio si è rivelato a noi, in modo singolare, come Dio degli uomini, Dio per noi, Dio che è amore; ed è facendoci scudo del suo Nome, mettendoci in rapporto con Dio con lo stesso tipo di relazione che Gesù ha avuto con lui, che osiamo chiamare Dio “Padre”. Dio si è rivelato nella carne di Gesù: ecco perché il rapporto, il legame che non può venir meno con quest’uomo appartiene all’identità stessa di Dio. È questa la peculiarità del cristianesimo.

Ciò che Gesù ha di eccezionale non è di ordine religioso, ma umano: proprio perché porta in se stesso l’immagine eterna del Dio invisibile, a somiglianza del quale siamo stati creati e diveniamo uomini, ci è dato di vedere la luce di Dio riflettersi dalla sua figura umana su ogni volto umano e possiamo lasciarci guidare da essa fino a Dio sulle vie di umanità che Gesù ha tracciato …

Associare “vangelo” e “umanesimo”: sfida che la fede cristiana non può rifiutare. Se la rifiutasse si chiuderebbe nel giro di breve tempo nella sua identità comunitaria, e questo la renderebbe incapace di comunicare con il mondo moderno, cioè di svolgere la sua missioneL’incarnazione, o umanizzazione del Verbo di Dio in Gesù, elemento distintivo del cristianesimo rispetto a tutte le altre religioni, lo predetermina a tenere un discorso di portata universale: il vangelo ne offre la testimonianza e un linguaggio sempre nuovo. Decidere di diffonderne il messaggio rappresenta un’opportunità, per i cristiani di questi tempi di incertezza, per scoprire un nuovo modo di stare insieme e di stare nel mondo senza cadere nella tentazione settaria, e di lavorare alla salvezza della storia, nel tempo e nello spazio della sua evoluzione, proprio in un momento in cui sembra minacciata da tragici errori. Ed è per cogliere tale opportunità che vale la pena di arrischiarsi nell’associazione tra vangelo e umanesimo.

Joseph Moingt, L’umanesimo evangelico

Beati e viventi

Leggi tutto: Beati e viventiCerchiamo di ascoltare le beatitudini tentando di individuare cosa dicono dell’esistenza dell’uomo nel mondo le parole qui radunate e articolate le une alle altre in modo così paradossale. Associandole liberamente si potrà far emergere un senso che illumini di luce particolare questo o quell’aspetto dell’esistenza umana nel mondo.

Traduciamo makários con il termine “vivente”, con un rimando non alla nozione di vita biologica, ma a quella che potremmo chiamare vita “psichica” o “spirituale”, quella che proviene dal soffio vivente che Dio insuffla in ogni uomo. “Viventi” sono coloro che non sono pieni di se stessi, delle loro ricchezze materiali o intellettuali, ma che hanno lasciato che si scavasse in loro uno spazio per l’avvento di qualcosa d’altro rispetto a ciò che già esiste e che essi padroneggiano. In altri termini, “vivente” significa aperto, disponibile alla vita del desiderio dentro di sé. Intesa in tal senso, ogni beatitudine apre a una dimensione “altra”, che instaura un modo nuovo di essere uomini.

Viventi i misericordiosi” (Mt 5,7)

I misericordiosi sono coloro che sono in grado di ascoltare l’altro, senza accorgersene e rendersi conto che l’hanno fatto (cf. 6,2-3): costoro a loro volta troveranno ascolto. Misericordioso è colui che si lascia toccare dalla debolezza dell’altro. La misericordia non è pietà, è un dono fatto nel segreto (cf. 6,3-4); solo il Padre sa ciò che hai donato o che l’hai fatto e lui solo “ti renderà” (6,6). Usciamo dalla logica della reciprocità. Il Padre è presente come terzo. Chi fa misericordia a sua insaputa, e non per averlo deciso, non si identifica con l’immagine del misericordioso. Né reciprocità, né identificazione con un’immagine. Viventi, voi che potete essere misericordiosi.

Viventi siete voi … a causa di me” (Mt 5,11)

L’interpretazione cristologica qui è esplicita: “a causa di me”. Ci può essere un odio che si scatena contro il vivente, un odio contro il desiderio. Ma felici coloro che ne sono oggetto, perché lo sono per il fatto di essere viventi della vita in Cristo. “A causa di me” è la relazione vivente che resiste a venti e maree. La persecuzione non verte sull’io (l’immaginario), ma sull’Altro, grazie al quale io sono figlio di Dio: la persecuzione ha di mira il soggetto che è la verità dell’essere umano. Questa relazione vivente può essere minacciata, perseguitata. L’essenziale allora è rallegrarsi non di essere perseguitati, ma di quell’“a causa di me” che unisce il soggetto vivente al suo fondamento. La ricompensa promessa non è da ricercare nella persecuzione o nel sacrificio, ma nei suoi effetti di gioia: è ricompensa nei cieli. Essa non obbedisce alla logica del benessere mondano. È costituita da elementi che si collocano in un altrove (“nei cieli”). Neanche la morte può vanificare questo altrove.

Élian Cuvillier, Paradossi del vangelo

Colui che è scelto, resta scelto

Leggi tutto: Colui che è scelto, resta sceltoMa la chiesa non è il “nuovo popolo di Dio”? Come intendere questa formula? È bene ricordare anche ciò che la Nostra aetate nel 1965 citava della Lettera ai Romani: “... essi sono israeliti, ai quali appartengono l’adozione a figli, la gloria [cioè la presenza di Dio nel suo popolo], i patti di alleanza, la legge, il culto e le promesse” (Rm 9,4). Non è detto: “a cui appartenevano”, all’imperfetto, come se si trattasse di qualcosa che è scaduto. Tutto questo è loro patrimonio, Dio non glielo ha sottratto ed è ciò che li fa vivere.

Qualunque cosa facciamo, Dio resta fedele, e colui che egli sceglie resta scelto. Noi possiamo temporaneamente allontanarci da lui, venir meno all’Alleanza, poi ritornare; egli attende pazientemente, è sempre pronto a riprendere di nuovo la sua relazione d’amicizia con ogni uomo, nel quadro della sua Alleanza. Paolo ce l’assicura: “Se noi siamo infedeli, egli resta fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,13). Aveva già detto, a proposito del popolo di Israele: “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,19).

Questo è anche ciò che ci garantisce che le nostre infedeltà non causeranno mai un rigetto collettivo definitivo da parte di Dio. Se avesse rigettato il popolo della prima Alleanza, perché non sarebbe stato tentato, più di una volta nel corso della storia, di rigettare il popolo cristiano sovente così poco fedele al vangelo, per ripartire da zero con un altro gruppo fino al prossimo tradimento?

Tutto ciò ci porta a comprendere quanto il popolo ebraico, così com’è, con le sue grandezze e le sue debolezze, abbia un posto speciale nella storia della salvezza di Dio, nel passato come nell’oggi, in grazia di una libera scelta di Dio. Si è lontani dall’idea di un popolo ebraico che, dopo aver svolto un ruolo di preparazione, sarebbe scomparso dalla scena …

Alla mente del credente cristiano può presentarsi un’obiezione: non abbiamo noi la pienezza della luce nel Nuovo Testamento? Che cosa abbiamo ancora da ricevere da quelli che ci hanno preceduto? Forse non abbiamo capito la Bibbia finora? Certamente, il cristiano che avesse perfettamente assimilato tutto il contenuto dell’Antico e del Nuovo Testamento (ma esiste un uomo simile?) possederebbe una ricchezza incomparabile. Ma quando Dio ha aperto ai popoli pagani il tesoro svelato dapprima a Israele, ha preso ogni popolo e ogni uomo nel suo stato primitivo e l’ha fatto progredire con pazienza di secolo in secolo. Dio prende ciascuno là dove si trova e lo conduce passo dopo passo a un livello morale e spirituale più elevato.

Così avviene ancor oggi per molti membri dei cosiddetti popoli “cristiani”. Un cristiano del nostro mondo moderno, che la domenica sente un passo del vangelo, non è sovente rimasto un pagano che Dio tenta di formare a poco a poco con la sua parola e la sua grazia? L’autore francese Péguy ha detto: “È necessaria tutta una vita perché l’acqua del battesimo versata sulle nostre fronti giunga fino ai piedi”. La stessa cosa si potrebbe estendere a un intero popolo.

Jochanan Elichaj,Ebrei e cristiani.Dal pregiudizio al dialogo

La coppia: armonia con l’universo

Leggi tutto: La coppia: armonia con l’universoGli sposi sono pieni di grazia, destinati a divenire un’autentica teofania, un’immagine visibile di Dio che si edifica secondo i principi della vita divina. “Quando il marito e la moglie si uniscono nel matrimonio essi non formano l’immagine di qualcosa di terreno, ma di Dio stesso” (Giovanni Crisostomo). E a questo punto si comprende perché la Bibbia si serva della metafora nuziale per designare il mistero del regno di Dio … Tutte le altre forme di amore possono raggiungere vette di purificazione e forza spirituale, ma restano comunque, considerate in se stesse e nella loro realtà, incomplete. L’uomo e la donna non sono due, ma un essere solo. Quindi il matrimonio riporta l’uomo all’integrità della sua natura originale. Questo comporta una rinuncia totale a se stessi: l’io non esiste più; solo il noi può essere espressione del vero io coniugale. In virtù della vita comune la distanza viene abolita, non vi è più che un solo essere. Ed è anche per questo che l’amore coniugale è l’espressione più fedele del comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 19,19).

Per restare fedele a se stesso l’amore coniugale, proprio a motivo della pienezza che ha saputo creare, si riversa all’esterno, e non può non farlo. Come l’Amore che ha creato il mondo, anche l’amore degli sposi cerca un oggetto e genera il figlio. Ma ogni amore autentico è sempre preveniente e non ha che una misura: l’infinito; esso travalica sempre i propri angusti confini, si dilata e diventa “il cuore misericordioso” di Isacco di Ninive. È questo il segno dell’autentico amore, del vero matrimonio, che è agli antipodi dell’egoismo a due, o dell’egoismo familiare.

La coppia si apre al mondo e, fedele al proprio amore, entra in armonia con l’universo: “Cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste ... Il cuore si scioglie e non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura. E per questo egli offre preghiere con lacrime in ogni tempo, anche per gli esseri che non sono dotati di ragione ... a motivo della sua grande misericordia, che nel suo cuore sgorga senza misura, a immagine di Dio” (Isacco di Ninive).

Malgrado le inevitabili cadute, l’io coniugale oltrepassa la dimensione del tempo e risuona sempre come l’io dell’unità. Benché sia una coppia concreta quella che riceve la grazia del sacramento, è comunque da parte della chiesa, nella chiesa e per la chiesa che essa la riceve, ed è la chiesa universale nella sua interezza che presenzia a ogni celebrazione del matrimonio, perché è il sacramento dell’onni-unità, dell’unione a immagine di Cristo e della chiesa; si può dire che è il sacramento della vita nella chiesa.

Non è la chiesa che si abbassa, ma la coppia che viene innalzata alla sua misura. Se, a causa della propria debolezza, non sempre l’uomo percepisce questo legame, rimane comunque la legge che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1Cor 12,26), cioè la legge del corpo di Cristo.

Pavel Evdokimov, Il matrimonio, sacramento dell’amore

“Il tuo amore vale più della vita” (Sal 63,4)

Leggi tutto: “Il tuo amore vale più della vita” (Sal 63,4)La tua benevolenza vale più della vita”: è il grido di giubilo dei miseri e degli abbandonati, di chi è in pena e di chi porta un peso oberante; è l’urlo di desiderio dei malati e degli oppressi; è il canto di lode dei disoccupati e degli affamati nelle grandi città; è la preghiera di ringraziamento dei pubblicani e delle prostitute, dei peccatori pubblici e privati. Bene, ma lo è davvero? No, non lo è, quantomeno non nel nostro mondo, nel nostro tempo. Lo è per lo strano mondo della Bibbia, che nella sua estraneità ci spaventa e ci irrita nella misura in cui prestiamo ancora ascolto alla sua parola e non siamo diventati insensibili alla sua realtà. Oppure questa parola non ci sembra affatto così strana? Forse crediamo che sia proprio un’autentica ovvietà? Queste cose sarebbero già del tutto entrate nella viva carne di un cristiano? No, per questo vogliamo iniziare a vedere che cosa il nostro salmo dica qui veramente e se ciò sia per noi davvero così ovvio.

Nella vita del nostro salmista è accaduto a un certo punto qualcosa di decisivo: è stato quando Dio è entrato nella sua vita e da allora la sua vita è cambiata. Non intendo dire che improvvisamente egli sarebbe diventato buono e pio, può darsi che lo fosse già da tempo. Ma in quel momento Dio stesso era arrivato e si era rivolto a lui, e soltanto il fatto che Dio gli fosse sempre accanto e che egli non se ne sia separato più, questo ha reso la sua vita così particolare. La sua esistenza è stata lacerata a metà. Qualcosa in lui si è dischiuso, egli si sente scisso, nel suo intimo si accende una battaglia che di giorno in giorno diventa più accanita e terribile ed egli sente come, di ora in ora, dal suo interno venga sradicato sempre più ciò in cui ha creduto. Egli combatte perché vorrebbe conservarlo; ma Dio, che gli sta sempre di fronte, glielo ha preso a forza e non lo restituisce. E quanto più egli perde, con tanta più forza e avidità afferra ciò che ancora gli resta; ma con quanta più forza stringe il suo possesso, con tanta più durezza Dio deve colpire e tanto più violento è il dolore nella separazione. E così si procede in una lotta a perdifiato, dove Dio vince e l’uomo cede; egli non sa ancora dove questo porterà, si vede perduto, non sa se odiare o amare colui che con tale violenza ha fatto irruzione nel suo intimo e ha distrutto la sua pace. Si fa estorcere ogni pedaggio, cede disperato alle armi di Dio. E se tutto ciò non fosse per lui così privo di speranza, queste armi non sarebbero tanto prodigiose e strane, per il fatto che esse fanno a pezzi e confortano, feriscono e tuttavia guariscono, uccidono e tuttavia ravvivano. Dio dice: “Se vuoi la mia grazia, allora fammi vincere su di te; se vuoi la mia vita, allora lasciami odiare e fare a pezzi la tua natura malvagia; se vuoi la mia benevolenza, allora fammi prendere la tua vita”. E poi ecco il momento conclusivo. Tutto è andato perduto, soltanto una cosa è rimasta all’uomo; e questa, la sua vita, egli vuole trattenerla. Ma Dio non può fermarsi, egli assalta quest’ultimo bastione. E la battaglia infuria attorno a quest’ultimo fronte; l’uomo si difende come un pazzo: “Dio non può volere questo, non può volermi prendere quest’ultima cosa, Dio non è crudele, Dio è benevolo”. E gli giunge in risposta: “Se vuoi la mia benevolenza, allora dammi l’ultima cosa che possiedi, la tua vita. Scegli!”.

Dietrich Bonhoeffer, Imparare a pregare

Trasmettere l’infinito

Leggi tutto: Trasmettere l’infinitoIl sacramento del matrimonio è praticato oggi dalla chiesa cattolica, in una liturgia profondamente rinnovata dopo il concilio Vaticano II. Questo nuovo rito cambia in primo luogo il detentore del potere sacramentale e in seguito cancella ogni traccia di diseguaglianza. Non è il prete a unire gli sposi come si potrebbe pensare (“Coniungo vos”), ma sono gli sposi stessi che, con l’espressione della loro volontà, prendono sacramentalmente possesso l’uno dell’altro e si donano sacramentalmente l’uno all’altro nello scambio del loro consenso. Al momento decisivo essi pronunciano la stessa frase che li lega: “Io accolgo te, come mia sposa (o: mio sposo) ... Prometto di esserti fedele sempre ... e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Ciascuno passa in seguito nel dito dell’altro lo stesso anello dicendo: “Ricevi questo anello, segno del mio amore e della mia fedeltà”.

Prima del Vaticano II, solo lo sposo faceva scorrere l’anello al dito della sposa e faceva scorrere lui stesso il suo al proprio dito. La sposa restava passiva. Pochissimi cristiani erano urtati da questa esclusività dello sposo nella distribuzione degli anelli, come se la sposa non potesse fare da sé il suo gesto di offerta.

Ai giorni nostri il prete tace. Assiste come testimone in nome di Dio e come delegato della chiesa incaricata di registrare l’evento. Per concludere, benedice gli sposi e li invia a compiere nel mondo la loro vocazione coniugale: “Nella chiesa e nel mondo siate testimoni del dono della vita e dell’amore che avete celebrato”. La coppia instaurata da questi sposi non ha formulato una vana promessa. Sono in grado di mantenerla. Ne hanno i mezzi procurati loro dal sacramento.

Questi mezzi non provengono dalla loro persona, ma da Dio. Gli sposi sono privi di ogni assicurazione preventiva, di ogni fedeltà indefettibile. Ma se il loro nulla acconsente ad aprirsi alla grazia del Signore, l’amore li riempie. Lo Spirito risponde al loro appello.

Egli mantiene la promessa cui gli sposi non si sono impegnati avventatamente se l’hanno fondata su di lui. Non è per orgoglio che essi si sono creduti allora indefettibili e capaci di trasmettere l’infinito mediante creature finite. È anzi l’umiltà che li ha spinti a chiedere a Dio di rimediare alla loro carenza.

Era meraviglioso il loro disegno, quello per cui un uomo e una donna possono costituire una coppia indistruttibile in mezzo alle prove che essi necessariamente incontreranno. La loro ambizione di un assoluto coniugale capace di resistere a tutte le usure, le angosce, le dimissioni, e di rinascere ogni volta dall’abisso era perfettamente giustificata, se si ammette che l’amore è certo vulnerabile, ma ha sempre l’ultima parola.

Disegno meraviglioso ma folle, che solo la follia di Dio permette di realizzare. Occorre un intermediario divino, una presa in carica da parte di Cristo perché il miracolo si compia e l’assoluto assicuri in creature limitate e fallibili il trionfo dell’assoluto. Si verifica così che l’essenziale delle nozze è nel consenso per cui due volontà libere decidono di fare alleanza per portare l’una all’altra la salvezza.

Jean Bastaire, Matrimonio: amore senza fine