Compagni di viaggio...

Leggi tutto: Compagni di viaggio...L’uomo nasce nomade, oltre che nudo: senza città né accampamenti, senza difese. Un marchio, questo, che rimane in qualche modo scolpito nelle sue profondità, per poi emergere a ogni occasione che si presenti; è un nomade come la natura intera.

L’uomo nasce nomade e in qualche misura tale resta. Forse il primo vero architetto della città è la paura, il bisogno dell’uomo di sapersi protetto più che di sentirsi un essere comunitario e civilizzato. Anche i nomadi hanno infatti vincoli e cultura; come d’altronde anche nelle città si sperimentano isolamento e barbarie! Inoltre, la comunione non la si assapora solo nello stare in un luogo, ma si può essere anche “compagni di viaggio”, secondo l’espressione che Ignazio di Antiochia applica ai primi cristiani …

La città dunque protegge, a volte troppo, vietando l’uomo anche a se stesso, fino a soffocarlo. Allora riaffiora nella mente l’eco di quel moto delle viscere, mai spento, che chiede di essere seguito da un altro movimento, fisico innanzitutto, che assecondi il suo ritmo. L’uomo allora riscopre il viaggio; ne sente tutta l’urgenza, come di un andare necessario, imposto dalla vita. Fa di tutto per mostrare, a se stesso innanzitutto, che quel viaggio è ingiunto dalla necessità: quando non si è più bambini, bisogna essere ponderati e agire solo per necessità altrettanto serie!

La vita, dunque, richiede di viaggiare: per aumentare la ricchezza o la varietà dei prodotti di cui si può disporre (viaggi commerciali), per conquistare nuove terre e assoggettare nuovi popoli (campagne di conquista), per placare gli dèi che chiedono di essere serviti in luoghi lontani e non ovunque o in un luogo qualsiasi (pellegrinaggi). Necessità reali e inconfutabili, che sembrano intrecciarsi a quel bisogno primario che è vera radice di ogni moto, e fornirgli un volto plausibile e soprattutto ragionevole.

La vita poi, quasi come riflesso al viaggio indotto dalla necessità, obbliga a viaggiare: per cercare cibo quando là dove si vive questo scarseggia (emigrazioni), o per pagare il prezzo di una guerra perduta (deportazioni). In questo caso è il dolore che prevale, ma nondimeno resta il viaggio, che non è mai vano.

Solo in tempi abbastanza recenti l’uomo ha avuto il coraggio di ammettere, senza più simulare, che si può viaggiare anche per piacere. Che il viaggio non è solo il prezzo da pagare in vista di un bene che è sempre al di là, alla fine. Che l’ampiezza e la varietà della terra non sono una disgrazia ma una benedizione. Il viaggio è ormai un piacere, e non si ha più nessuna remora ad affermarlo!

Ma forse l’itinerario non è ancora concluso: il piacere è ancora relegato nella meta, nella città d’arte o nella foresta esotica da andare a visitare. Ci vorrà ancora altro tempo per riappropriarsi coscientemente del piacere originario, sempre goduto e puntualmente misconosciuto, cioè del viaggio stesso come primo piacere, perché primo bisogno.

S. Chialà, Parole in cammino

Lettere dalla storia

29. x. 1942

Leggi tutto: Lettere dalla storiaSorella,

mi permettete di conservare la copia della Lettera che avete mandato a Roma? Ò bisogno di averla vicina, specialmente in questi momenti di prova rinnovata. Vi trovo edificazione, conforto e l’accento della giusta devozione. Che Vi rispondano o no, questo è poca importanza. Noi non ci facciamo molte illusioni sul progredire della larghezza spirituale in certi ambienti: ci basta conoscere il nostro dovere di figliuoli e pregare Iddio che ci aiuti a rimanervi fedeli a qualsiasi costo.

È l’ora della fedeltà, consumata però in una oblazione monda e sincera. In alto, tra gli uomini, possono anche non tenerne conto e giudicarla diversamente: più in alto, viene raccolta e messa in conto d’espiazione e di testimonianza per un domani pauroso, già alle porte.

Anche la mia prova si è in questi ultimi giorni accentuata. Il volumetto ultimo Anch’io voglio bene al Papa è dispiaciuto in Curia per il suo tono umano. Direttamente non mi è ancora nulla pervenuto, ma la campagna è aperta per non lasciarmi più voce. A una editoria cattolica, che stampava La Parola che non passa, fu consigliato di smettere. Altri scritti a quotidiani mi furono rimandati con risposte troppo chiare per non vederci un’intenzione. I revisori ecclesiastici di alcune diocesi furono messi sul guardavoi.

Vedete, cara Sorella, come le nostre povere strade s’incontrino. Ma il fuoco, se il Signore ci usa pietà, continuerà ad ardere nel segreto dei nostri cuori.

Penso al Vostro inverno costì! A l’inverno di tanti e tanti e mi prende uno struggimento interiore come non ò mai provato.

Se potessi vederVi, parlarVi! Su l’Altare ci siete ogni mattina, con quanti avete sulle braccia e nel cuore, con la nostra piccola e cara Famiglia, cui mi sento legato per l’Eternità.

Date a tutti i fratelli il mio saluto e la mia benedizione alle dolci amabili creature che vivono e soffrono vicino a Voi. Mio padre (83 anni) continua a migliorare, mamma Grazia à sempre in piedi, Giuseppina cammina col fratello.

Sono un po’ stanco, ma posso lavorare lo stesso. Ò chiuso Impegno con Cristo; sono alla fine della Samaritana, abbastanza avanti col Vangelo del reduce e con un romanzo: L’uomo di nessuno.

Datemi braccia, Sorella, datemi cuore! Si avvicina l’ora: bisogna essere in piedi e con la lampada accesa.

Vi benedico, Vi benedico affettuosamente.

Vostro

fratello Ignazio

Sorella Maria di Campello, Primo Mazzolari, L’ineffabile fraternità. Carteggio (1925-1959)

Fidarsi dell'amore

Leggi tutto: Fidarsi dell'amoreIl racconto biblico è il racconto di un amore unico e straordinario che, come unica condizione, pone di essere accolto, fidandosi e affidandosi alla sua potenza. Credere in Dio o avere fede vuol dire fidarsi e affidarsi alla potenza di questo amore … Fidarsi di Dio è riconoscere che l’io non è mai prima ma sempre dopo, perché prima è l’Altro – Dio appunto – che per primo ama l’io e se ne prende cura; ed è soprattutto lasciarsi sorprendere da questo Dio che per primo ama, cogliendone lo stupore e lo scandalo, se solo si considera che per pensatori come Platone o Aristotele Dio poteva essere amato ma non amare e che l’idea che egli si prendesse cura dell’uomo sarebbe apparsa incomprensibile e bizzarra, come per noi l’affermazione di uno che oggi dicesse che la natura lo ama, potendo la natura essere amata ma non amare!

Un tratto dell’amore di Dio che per primo ama è la sua paradossalità: non solo perché, come si è precisato, ama per primo ma perché, amando per primo, ama di un amore che è gratuito. Nel senso, innanzitutto, che la ragione dell’amore risiede in lui che ama e non in chi è amato, come rileva continuamente il racconto biblico mettendo al centro la figura dello straniero sul quale Dio si china (il Primo Testamento) e la figura del nemico che Dio perdona (il Secondo Testamento); nel senso, poi, ancora più radicale che l’amore donato non mira alla realizzazione di chi lo dona, ma alla felicità di chi lo riceve, accolto e amato nella sua alterità e non in quanto momento interno alla felicità di chi lo dona.

Il racconto biblico è il racconto di questo amore gratuito incondizionato e senza ritorno: incondizionato nel senso che Dio non pone condizioni all’uomo che egli ama, abolendo ogni “se” e ogni “perché” nei suoi confronti; senza ritorno, nel senso che, amandolo, piuttosto che realizzarsi, compiersi o soddisfarsi, Dio al contrario gli fa spazio, limitandosi e mettendo da parte le sue ragioni e i suoi “diritti divini”.

Fidarsi di Dio è affidarsi a questo amore gratuito, impensabile e straordinario, incondizionato e senza ritorno. È consegnarsi a questo amore e gioire della sua presenza, della sua bellezza e della sua potenza. È sapere che prima dell’io e più importante dell’io, dei suoi progetti, dei suoi sogni, delle sue realizzazioni e dei suoi desideri, c’è l’amore che ama l’io, lo accoglie e gli sorride. È sapere tutto questo e riconoscerlo: sempre, nella buona e nella cattiva sorte, quando il sole splende o quando è coperto, quando i conti tornano o quando vanno in rosso, quando si gioisce o quando si soffre. Non perché si possegga l’intelligenza di capire il senso di tutto ciò che accade ma semplicemente perché questo senso è altrove, non in noi ma nell’Altro, in Dio che si prende a cuore la nostra sorte e ci chiede di fidarci.

Carmine Di Sante, Fiducia, speranza, amore

Una storia che può cambiare il mondo

Leggi tutto: Una storia che può cambiare il mondoIl Vangelo di Marco più di ogni altra cosa tratteggia e cerca di attuare a favore di noi lettori un rapporto nel cui ambito le storie narrate acquisiscono senso e diventano credibili: non siamo invitati a formulare giudizi distaccati. In questo modo non voglio affermare indirettamente che i miracoli in Marco non sono reali, ma piuttosto dire che leggere i racconti di miracolo in Marco non significa per l’appunto cogliere in essi una serie di eventi magici degni di nota. Significa leggere di una persona attorno alla quale avvengono cose straordinarie, non importa in fin dei conti con quali dettagli, e cercare di cogliere come una simile strategia narrativa riguardo a tali eventi diventi credibile appunto perché ha trasformato sia il suo narratore sia gli uditori, perché ha creato un rapporto di piena fiducia che ora viene offerto al lettore /ascoltatore affinché lo faccia proprio.

Il testo del Vangelo secondo Marco lancia due sfide ai lettori. La prima è lasciarsi interpellare dalla sua figura centrale. Il narratore Marco scrive a partire da un rapporto, un rapporto irresistibile con Gesù, che desidera divenga reale anche per noi; dunque, a prescindere dal fatto che noi vogliamo o meno entrare in un rapporto analogo, dobbiamo prestare attenzione al fatto costituito da tale rapporto così come l’evangelista ce lo presenta. Di conseguenza, ed è la seconda sfida, dobbiamo afferrare il mutamento avvenuto nella realtà, a cui la storia rende testimonianza, e prendervi parte; tale mutamento viene ora annunciato ufficialmente in un euanghélion, un comunicato stampa proveniente dal palazzo, e narra un cambiamento nel clima politico, un mutamento di regime. Sono queste le sfide: sappiamo lasciarci interpellare dalla figura di Gesù? Siamo in grado di entrare a far parte del mutamento dello status quo che è il tema centrale della sua storia?

Nel primo capitolo di Marco: la voce dal cielo al battesimo di Gesù, la testimonianza resa a Gesù dalla risposta di quegli uomini e quelle donne che riconoscono l’eccezionale autorità e novità di ciò che egli dice e di come lo dice, e la voce dei demoni che si ribellano alla sua presenza. Questa storia, il monito è chiaro, è profondamente seria, è una storia in grado di cambiare il mondo, e la sua influenza va ben al di là dei villaggi della Palestina. E se gli eventi in essa narrati cambiano davvero il mondo (operando un mutamento di regime), allora la sua figura centrale è un uomo dotato dell’autorità e della capacità di cambiare qualsiasi cosa e tutte le cose che sono nel mondo.

Marco ottiene un notevole trionfo narrativo proiettando Gesù sul palcoscenico senza la minima introduzione. Non dice chi egli sia, al di là di come si chiama e da dove proviene: nessun retroterra familiare, nessuna storia natalizia. Il sipario si alza rapidamente ed ecco sulla scena la figura centrale; nessun preludio, apologia o spiegazione, compare l’Unto. Ed è così che il testo proseguirà: per questo il Gesù di Marco non è, malgrado l’opinione di alcuni lettori, un profeta umano, innocente e diretto, privo di tutti quei marchingegni teologici che lo avvolgono negli altri vangeli. Al contrario: si potrebbe sostenere che questo Gesù sia più alieno, più “trascendente”, semplicemente più fastidioso del Gesù degli altri tre vangeli. A noi il compito di investigare quale sorta di mutamento si suppone egli abbia suscitato.

Rowan Williams, Il Dio di Gesù nel Vangelo di Marco

Genesi: relazioni per divenire umani

Leggi tutto: Genesi: relazioni per divenire umaniLungo tutta la Genesi vengono rappresentate costantemente le relazioni che strutturano il mondo umano: rapporti di coppia, tra le generazioni, legami tra fratelli vicini o lontani. In queste relazioni fondamentali si giocano le scelte radicali dalle quali dipende il divenire del singolo e dell’umanità, scelte che coinvolgono anche il futuro della creazione di Dio. È così che la Genesi porge al lettore una sorta di specchio dove egli può contemplare a piacimento la propria realtà, per tentare di cogliere meglio i meccanismi all’opera “da sempre” nell’edificazione dell’essere umano, o al contrario nella sua distruzione. D’altro canto, la conoscenza dell’umano, a sua volta nutrita dalla lettura di questo libro, offre una chiave di lettura insostituibile a chi cerca di comprendere meglio questi racconti.

In particolare, il narratore si sofferma sulle molteplici sfaccettature di un male che, fin dall’Eden, coglie gli umani e intacca le loro relazioni fondanti imprimendo una svolta negativa al desiderio su cui si fondano: la concupiscenza e la variante della gelosia. Il lettore viene così invitato a misurare in tutta la sua entità il male umano, che gli viene presentato in una luce cruda. Perché, quando il desiderio si arena nell’avidità, nel bisogno da soddisfare – l’appetito, per riprendere l’immagine del mangiare –, l’animalità s’impadronisce dell’umano; egli diventa allora predatore del suo simile nel quale vede una preda, un rivale o un oggetto. In queste condizioni, come potrà assegnare al coniuge il posto che gli spetta? Riuscirà a permettere che i suoi figli prendano il largo? A vedere l’altro come un fratello? A vivere in pace con lo straniero? A evitare che la sua parola si corrompa nella menzogna?

Quindi è a prezzo della vittoria sulla concupiscenza che si costruisce il futuro degli umani. È dunque essenziale che essi imparino a convertire in desiderio di vita l’avidità che li sfigura e che conduce alla morte. Certo, questa inversione di rotta è opera di Dio, fedele al suo impegno di lottare contro il serpente (3,15). La Genesi racconta anche questo. Come dice Giacobbe, infatti, è Dio il pastore che libera da ogni male(48,15-16). E per Giuseppe è lui che riesce a rovesciare l’inganno del serpente e a trarre del bene dal male, trasformando l’invidia in desiderio autentico e la gelosia in fraternità, per rendere certa la vittoria della vita (50,20). È lui che, nei recessi della storia, insegna agli umani, attraverso i loro errori come attraverso i successi, a riconoscere ciò che li rende infelici e a guardarsi dalle trappole tese dalla morte. È ancora lui che, verso e contro tutto, coltiva nel cuore degli uomini che egli sceglie il desiderio di vita per tutti e quell’aspirazione al “bene”, che è suo desiderio fin dal principio. Il libro della Genesi non potrebbe essere anch’esso un segno di questa fedeltà senza incrinature?

 

André Wénin, Dalla violenza alla speranza. Cammini di umanizzazione nelle Scritture

La pace venga su di te

Leggi tutto: La pace venga su di tePossiamo avere la certezza di ricevere la pienezza della vita in Dio e di manifestarla quando la pace di Dio riposa su di noi, penetra in noi. Ecco perché, desiderosi di vivere in Dio, gli uomini dell’antica alleanza, gli uomini dell’antico popolo di Israele, quando si incontravano, invocavano la pace sul prossimo. “La pace sia con te”: questo era il saluto del popolo ebraico, e cioè: “La pace venga su di te, ti rivesta, ti avvolga”. Questo appello alla pace attraversa l’antico popolo, e dopo di lui, il popolo della nuova alleanza, la chiesa. Ma al nuovo Israele corrisponde un fatto nuovo: con la venuta di Cristo una qualità sconosciuta di pace scaturisce dalla riconciliazione dell’uomo con se stesso, con il suo prossimo, con Dio.

Poiché Cristo ci ha riconciliati, a nostra volta siamo chiamati a riconciliare tutti gli uomini. E poiché Cristo ha perdonato, a nostra volta dobbiamo perdonare: “Perdonaci come anche noi perdoniamo”(Mt 6,12). Ecco il fatto nuovo: riconciliati attraverso Cristo, perdonati, rivestiti di pace, gli uomini possono vivere insieme, in un solo corpo, nella chiesa.

La pace della riconciliazione ricrea l’unità perduta e libera l’uomo dalla sua angoscia originaria. Diviso in se stesso, l’uomo vorrebbe fare il bene che desidera, eppure fa il male che odia. A quest’uomo diviso è rivolto un appello: vivere la pace di Cristo, fonte di unità. “La pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché a essa siete stati chiamati in un solo corpo” (Col 3,15). Per diventare fermento di unità occorre che la pace di Cristo regni nel nostro cuore, cioè nel più profondo di noi stessi, nell’intimità della nostra persona.

Questa pace di Cristo ci abita ogni volta che ci riconciliamo con il nostro prossimo. Del resto, se non siamo riconciliati, come avvicinarci a Dio, come avvicinarci all’altare? No! Occorre lasciare la questa offerta, per quanto generosa, che volevamo fare a Dio e cercare anzitutto di riconciliarci con il nostro fratello.

E questa pace di Cristo ci abita ogni volta che siamo strumenti di riconciliazione del nostro prossimo con Dio, attraverso il perdono, attraverso la misericordia, questa compassione del cuore.

Vi è una tale letizia nel cuore quando vive di pace, quando è in pace con se stesso e con Dio! Nonostante il peso di fardelli sempre presenti, nonostante il perdono, reso più difficile se si è stati disprezzati, umiliati – a volte da cristiani, da cui ci si aspettava uno spirito di misericordia – nonostante tutto questo fardello, che c’è ogni giorno e per tutti, vi è un’incomparabile leggerezza del cuore che nessuno può togliere a chi ha la pace di Cristo.

frére Roger di Taizé

tratto da: I cristiani di fronte alla guerra, a cura di lisa Cremaschi

Umanità e creato in comunione

Leggi tutto: Umanità e creato in comunioneDiventa sempre più evidente che quella che è stata chiamata “la crisi ecologica” è forse il problema principale che si presenta all’attenzione della comunità mondiale. Diversamente da altri nodi problematici, questo è segnato da un lato dalla peculiarità che è un problema globale, riguardante tutti gli esseri umani a prescindere dall’area del mondo in cui vivono e dalla classe sociale a cui appartengono, dall’altro lato dal fatto che è un problema che non ha a che fare semplicemente con il benessere ma con la possibilità stessa di sussistere dell’umanità e forse del creato nella sua interezza. È di fatto difficile trovare un qualsiasi aspetto di quel che chiamiamo “male” o “peccato” che porti con sé un simile potere devastante e riguardante ogni cosa come il male ecologico. Questo modo di descrivere il problema ecologico può forse sembrare agli orecchi di alcuni un’esagerazione grossolana, tuttavia è difficile trovare un solo scienziato o uomo politico serio e responsabile che non si trovi d’accordo con quanto appena rilevato …

Cos’ha da offrire la teologia all’umanità, alla luce di questa situazione? La prima cosa, ovvia, da menzionare è che la teologia non può e non deve rimanere muta su un tema come questo. Se la fede riguarda le cose ultime, abbraccia problemi di vita e di morte, questo problema particolare rientra nella sua portata categoriale. È quasi impossibile scusare la teologia cristiana e la chiesa per il silenzio così prolungato su questa materia; ciò in particolar modo da quando, e non senza buone ragioni, a esse è stata mossa l’accusa di avere a che fare con le radici del problema ecologico. Esse – la chiesa e la teologia – devono parlare di questo argomento non tanto per scusarsi e offrire spiegazioni a seguito di tali accuse, ma al fine di offrire un contributo costruttivo per la soluzione del problema. Devono avere qualche parola significativa da dire su una materia come questa, altrimenti rischiano di essere irrilevanti e incapaci di tenere il passo con la loro pretesa di verità; perché una verità che non offre la vita è svuotata di qualsivoglia significato.

Sento che la nostra cultura ha bisogno di rivivificare la presa d’atto che la superiorità degli esseri umani in rapporto al resto delle creature non consiste nella ragione che essi possiedono, bensì nella loro capacità di porsi in relazione in modo tale da creare eventi di comunione, a partire dai quali gli esseri individuali sono liberati dal loro essere centrati su se stessi e quindi dai loro limiti, e vengono riferiti a qualche cosa di più generale di loro stessi, a un “oltre”. A Dio, se si desidera far uso di questa terminologia tradizionale. Un simile uomo può agire non da agente pensante, ma come persona.

Ioannis Zizioulas, Il creato come eucaristia