Sabato: accoglienza di un ospite

Leggi tutto: Sabato: accoglienza di un ospiteHeschel descrive il sabato come una “cattedrale nel tempo”. Il sabato è estremamente centrato sul tempo, in un modo che non ha paragoni con gli altri giorni della settimana. “Il giorno di sabato era una presenza viva, e quando arrivava lo sentivano tutti come un ospite che era venuto a visitarli”. Quando si avvicina il sabato, vi è un sentimento di attesa, di preparazione, di fretta affaccendata, in tutto analogo all’accoglienza di una persona cara, della cui compagnia si presente il godimento. Questa è proprio la sensazione che si ha il venerdì: fin dall’inizio, il giorno è immerso in un’atmosfera di attesa, e tutte le azioni del giorno riflettono il fatto che uno deve prepararsi perché, a un dato momento, arriverà il sabato.

Il sentimento di gioia anticipata che si ha mentre si aspetta un ospite, è precisamente quello che si sente alla vigilia del sabato. L’analogia continua anche quando il sabato arriva. Si crea un’atmosfera festiva: in altri termini, il tempo non è trasceso ma piuttosto riempito e carico della gioia che si ha quando arriva un ospite. Non vi è nulla che possa cambiare la routine della vita così rapidamente come l’arrivo di un ospite. Quando viene a visitarmi qualcuno che non ho visto per un certo tempo, o per il quale nutro un affetto particolare, non solo le ore e i giorni precedenti il suo arrivo sono pieni di azioni e di pensieri che anticipano la sua venuta, ma non appena viene, la mia vita cambia completamente. Metto da parte delle cose, non mi affaccendo nelle mie incombenze quotidiane come faccio quando non ci sono ospiti, ma ordino ogni cosa in vista di lui, cambiando per questo i miei orari.

Questa è solo un’analogia approssimativa di ciò che succede di sabato. Ma, lungi dall’essere trasceso, il tempo è infuso e si carica di un significato speciale: è più prezioso che mai e non voglio che passi, proprio perché è così pieno, così carico. L’analogia può applicarsi anche per descrivere che cosa accade alla fine del sabato. L’ospite sta per partire, si sente come un indietreggiamento, una diminuzione nel cuore, le preoccupazioni della routine quotidiana cominciano a fare irruzione mentre l’ospite è ancora lì. Cominci a guardare l’orologio, sapendo che a una certa ora deve partire; osservi i suoi preparativi per la partenza. Si sente che la ricchezza e la pienezza dello spirito stanno per andarsene. Questo è anche il sentimento che si ha quando parte il sabato. È un sentimento di diminuzione spirituale, uno svuotamento, una “vacanza”, nel senso negativo del termine.

Questa è la ragione per cui il sabato è descritto come se fosse portatore di un’anima supplementare, un incremento di spirito che viene tolto al singolo non appena il sabato “esce”.

Vi è, tuttavia, una differenza molto notevole fra il sabato e un ospite. La differenza è che chi arriva il venerdì sera, appena prima del tramonto, non è un ospite fisico, ma è di fatto un’atmosfera: arriva un certo ambiente. “Non è una data ma un’atmosfera; non è uno stato di coscienza ma un clima diverso. La prima consapevolezza è quella di essere noi nel sabato piuttosto che il sabato sia in noi”. Il sabato è un ambiente che ci circonda; siamo dentro di esso, siamo immersi nel sabato. Questo è ciò che succede all’ingresso del sabato: un ambiente perfettamente amato e rinfrescante avvolge e circonda l’individuo e la comunità.

Moshe Greenberg, Una parola uscita da Gerusalemme

In ascolto della famiglia

Leggi tutto: In ascolto della famigliaL’annuncio del matrimonio cristiano è chiaro, esigente, perché nel rapporto tra uomo e donna, che vivono una storia d’amore, che sono legati nell’alleanza della parola data, è significata l’alleanza fedele tra Dio e il suo popolo; ma occorre mantenere viva la coscienza che noi non siamo mai capaci di manifestare pienamente la fedeltà di Dio, il quale è fedele anche se il suo popolo è sempre infedele. Questo messaggio esigente noi cristiani dovremmo comunicarlo mettendoci in ginocchio e dicendo umilmente che è una parola del Signore, non nostra, una parola che annunciamo senza presunzione né arroganza, sapendo che vivere il matrimonio nella fedeltà e nell’amore rinnovato è un’opera ardua, difficile, faticosa, impossibile senza l’aiuto della grazia di Dio, e in ogni caso mai vissuta pienamente, ma sempre contraddetta da miserie, debolezze e da quell’egoismo che ci abita fino alla morte.

Questo annuncio evangelico non può certo essere mutato dalla chiesa, anche se scandalizza non solo il mondo, ma gli stessi cristiani, come dimostra la reazione dei discepoli alle parole di Gesù: “Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10). Ma di fronte a questa chiara volontà di Gesù, la chiesa, proprio nell’annunciarla in verità, senza cambiare la dottrina, deve avere il coraggio di esprimerla con parole nuove, comprendendo sempre meglio tale annuncio. Come affermava papa Giovanni XXIII, riferendosi al compito che attendeva il concilio: “Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio” 1 (24 maggio 1963).

Per questo, nella convinzione che la forma e l’identità della famiglia, molto diversificata nelle diverse società e culture, mutata a più riprese nel corso dei secoli, nel nostro occidente ha conosciuto profondi e rapidi cambiamenti negli ultimi decenni, oggi noi chiesa dobbiamo porci in ascolto delle famiglie, o meglio degli uomini e donne del nostro tempo, che vivono la storia del matrimonio in un modo nuovo rispetto al passato. La chiesa deve guardare in faccia gli uomini e le donne di oggi, le loro fragilità e debolezze, e non solo il loro desiderio di famiglia, come dicono più volte i documenti sinodali, ma anche le paure e le incertezze riguardo alla famiglia. Solo da un ascolto attento, amoroso, non prevenuto e non presuntuoso dell’attuale fatica a costruire e a vivere la famiglia, potrà nascere uno sguardo su di essa e sulle sue vicende segnate da gioiosa beatitudine ma a volte anche da sofferenza e morte.

Non si dimentichi, inoltre, che il giudizio sulla realtà matrimoniale è rappresentato dalle parole radicali di Gesù: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore” (Mt 5,28). Sono parole che interrogano tutti: chi non ha commesso questo peccato? Nelle storie d’amore il cammino è accidentato, e anche per i credenti può accadere la contraddizione all’alleanza nuziale. Può anche avvenire la separazione, che a volte addirittura si impone e non è certo un peccato né una colpa, come papa Francesco ha ricordato recentemente. Sì, oggi molti cristiani si trovano in questa situazione di lacerazione, e la loro presenza deve interrogare tutta la chiesa.

La famiglia tra sfide e prospettive

Uomo: unicità e diversità

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L’esistenza dell’uomo ha il punto di partenza nel divino amore. La creazione dell’uomo è opera dell’amore di Dio, non della “sua buona disposizione” ma del suo amore che costituisce l’essere come fatto esistenziale di comunione e relazione personali. L’uomo è stato creato per comunicare alla vita di Dio, e per partecipare alla libertà dell’amore che è la “vera vita”.

            Certo, l’uomo non smette di essere creatura: la sua natura è una natura creata; la sua individualità naturale è corruttibile e mortale. Ma in questa natura creata e mortale Dio ha impresso la “sua immagine”, “ha soffiato un alito di vita” (Gen 2,7), la possibilità della vera vita al di là dello spazio, del tempo e della necessità naturale. Perciò l’individualità biologica di ogni uomo non esaurisce la sua esistenza. Quello che l’uomo propriamente è come realtà di vita, “di vita eterna”, lo si vede nella sua alterità personale che si realizza e si rivela nell’evento della comunione e della relazione con Dio e con i fratelli nella libertà dell’amore. Ogni altra creatura ha il punto di partenza della sua realtà nella volontà di Dio, è una manifestazione dinamica della parola creativa dell’amore divino. L’uomo, però, non trova l’origine della sua realtà semplicemente nella volontà di Dio bensì nel modo nel quale Dio dà vita all’essere e questo modo è appunto l’esistenza personale, la possibilità esistenziale della comunione e della relazione d’amore, cioè la possibilità della “vera vita”. Non è l’uomo una pura manifestazione dinamica della parola di Dio: è una parola di alterità personale, di un amore libero da ogni determinazione. È per questo motivo che l’uomo può accettare o negare il presupposto della sua realtà; può negare la libertà dell’amore e della comunione personale; può dire no a Dio e autoescludersi dall’essere.

            La verità della relazione personale con Dio, positiva o negativa, ma sempre relazione esistenziale, è la definizione dell’uomo, il modo nel quale l’uomo é. Egli è un fatto esistenziale di relazione e comunione, è “persona”: ciò significa (etimologicamente, ma anche concretamente) che ha il volto verso qualcuno o verso qualcosa, è davanti a qualcuno o a qualcosa (“in relazione”, “in rapporto”). La natura umana creata in ogni sua realtà personale è “davanti” a Dio, esiste come rapporto e relazione con Dio.

            La natura umana universale (l’uomo come “tutto”, come specie biologica) può essere definita oggettivamente: ha volontà, ragione, intelligenza, immaginazione, giudizio, eccetera. Ma ogni persona umana vuole, parla, intende, immagina, giudica in modo unico, diverso e irripetibile. Conseguentemente la persona non è un individuo: segmento o parte della natura umana universale. Non rappresenta una relazione della parte con il tutto, ma la possibilità di ricapitolazione del tutto in un’alterità di relazione. L’unicità e la diversità (che sono e sono vissute solo come evento di comunione e relazione) definiscono l’esistenza personale dell’uomo, il modo nel quale l’uomo è.

Christos Yannaras, La libertà dell’ethos

Realizzare la pace, edificare la comunità

Leggi tutto: Realizzare la pace, edificare la comunitàPer capire in che modo possiamo lavorare per la pace perché Dio possa chiamarci suoi figli, può essere utile ricordare cosa vuol dire per Cristo essere chiamato Figlio di Dio. Nel Vangelo di Matteo, Cristo è chiamato “Figlio” due volte, e la voce viene dal cielo: la prima volta lungo il Giordano; la seconda sul monte Tabor. In entrambe le occasioni, sentiamo: “Questo è il mio Figlio amato, in lui mi sono compiaciuto” (Mt 3,17; 17,5). Cristo è il Figlio di Dio perché è in piena comunione con la natura di Dio, pienamente coinvolto nel volere di Dio. Piena comunione significa condividere tutte le risorse di Dio. E pieno coinvolgimento nelle beatitudini significa riflettere la pace e la giustizia di Dio. Anche se la comunione e il coinvolgimento di Cristo portavano alla morte in croce; e anche se ciò significava per lui porsi in diretto contrasto, anzi in contraddizione, rispetto al modo in cui la società intendeva la pace e la giustizia, egli continuò ad abbandonarsi al progetto e alla volontà di Dio.

Forse, allora, è importante smettere di misurare il progresso e il successo nel modo in cui li valuta la società. Il criterio del successo non può essere definito in termini quantitativi: per Cristo la fine è stata la croce, per Giovanni il Battista la fine è stata la decapitazione. Tuttavia, “diventare figli” implica anche qualcos’altro. Realizzare la pace significa edificare la comunità, e la comunità comincia riconoscendo la dignità di ogni persona, che è preziosa agli occhi di Dio. È per questo che, interrogato a proposito della grandezza, Cristo ha indicato un bambino e ha detto: “Se non cambiate [lett.: vi pentite] e non diventate come questo bambino, non entrerete nel regno” (Mt 18,2-3). Questo era un gesto radicale in un tempo in cui ai bambini erano negati i diritti umani e in cui i bambini non avevano accesso alle risorse fondamentali. Per la loro età e per la legge essi erano segregati dal resto della società. Quando oggi sento parlare di tratta dei bambini, mi chiedo quanto ci siamo davvero allontanati.

Certo, “operare la pace” è un lavoro duro. Eppure è la nostra unica speranza di restaurare un mondo in frantumi. Lavorando per la pace, lavorando per guarire l’ambiente, rimuovendo gli ostacoli alla pace, evitando ciò che arma il mondo, possiamo – almeno questo è ciò che ci è assicurato – udire una voce nel nostro cuore che dice: “Questo è il mio amato. Nel mio amato – e in lui, in lei, in te – mi sono compiaciuto”.

John Chryssavgis in Aa.Vv., Beati i pacifici

Uomo, viaggio verso la luce

Leggi tutto: Uomo, viaggio verso la luceChe cosa è l’uomo?” (Sal 8,5). L’uomo è un enigma a se stesso, chiamato a fare luce su di sé attraverso la via della conoscenza e della realizzazione del sé, un cammino dalla sponda della non conoscenza al porto della conoscenza della propria profonda verità. In questo tragitto verso l’iniziazione al proprio nome, al proprio compito e al proprio destino nascosti, sono guida le illuminazioni che sorgono dall’udito interiore, il codice del cuore … Un viaggio in compagnia, un’esplorazione che conduce, con sensibilità e sfumature mai concluse, a una visione del fenomeno uomo in termini di “creaturalità”.

L’amore entra di diritto nella definizione dell’uomo; sottolinearlo è un atto di intelligenza: sono stato amato, dunque sono-amo, dunque faccio essere. Me stesso: “ama te stesso” (etica personale); l’altro: “ama il prossimo tuo come te stesso” (etica interpersonale e sociale); e l’ambiente: “sii il custode del giardino” (etica ecologica). Il tutto nella “razionalità”, un’intelligenza consapevole e al contempo libera: riflessiva, la ragione capace di pensare il sé e la vicenda cosmico-umana; strumentale, la ragione capace di calcolo, vale a dire di programmazione, di sperimentazione e di verificabilità che caratterizzano l’homo faber, l’universo tecnico; e infine la ragione intuitiva, capace di pellegrinaggi nel profondo e di sguardi visionari, aperti, nell’invocazione e nell’attesa, al non ancora edito. Sguardi nel dolore a motivo della situazione drammatica in cui versa l’umanità, la barbarie che dimora nell’uomo e che condiziona i suoi rapporti; uomo a cui è richiesto l’esodo verso lidi di empatia e di compassione attiva che niente e nessuno esclude. È un viaggio a caro prezzo, il cui obiettivo è indicato da un terzo che, imprevisto, si accompagna al cammino dell’uomo chiedendogli apertura e accoglienza, costituendolo credente. Un Dio singolare di cui, a proposito del suo rapporto con l’uomo, è scritto: “Ti ricordi di lui … te ne prendi cura” (Sal 8,5). L’uomo, enigma a se stesso e in cammino verso la conoscenza di sé in termini di creaturalità, relazionalità, eticità, razionalità, drammaticità e apertura all’inedito, è un “tu” unico, irripetibile e inviolabile di cui Dio si prende cura non dimenticandosi di lui. Un ricordarsi il cui apice, secondo il racconto cristiano, è Gesu di Nazaret. Al salmista che si domanda: “Che cosa è l’uomo?”, Dio risponde non disquisendo ma donando un singolarissimo tu, il Cristo: “Ecco l’uomo” (Gv 19,5). Un tu, infine, che viene da lontano per condurre lontano nella conoscenza di sé, oltre la soglia, oltre il limitare e il confine di ogni ragione umana.

Un viaggio intorno all’uomo per concludere che l’uomo è viaggio, la ove la domanda della conoscenza del proprio “io nascosto” diventa ricerca e attesa, e beato chi lungo il percorso trova amici disposti a porgere frammenti di luce: il padre e la madre, qualche persona saggia, i libri, e un amico di nome Gesù. Un incontro decisivo nel cui nome, nel cui viaggio e nel cui approdo è dato di vedere il proprio nome, il proprio viaggio e il proprio approdo, un’esperienza affidata al canto e al racconto, in un tempo il cui registro dominante è la ragione economica. Semplici avvisi utili ai naviganti. Il cammino verso la conoscenza del sé domanda il viaggio verso occhi nuovi che indichino la rotta per approdare alla riva in cui l’enigma dell’uomo è convertito in mistero, in stupita e mai conclusa conoscenza.

Giancarlo Bruni, Pellegrini in cerca di senso

Chiamati a essere nuove parole per Dio…

Leggi tutto: Chiamati a essere nuove parole per Dio…Il poeta e/o il contemplativo diventa egli stesso una nuova parola per Dio. Nell’atto di sfida e di sospensione della volontà, dell’ego che vuole controllare, la vita, l’identità concreta del poeta e del contemplativo, diventa essa stessa parola, comunicazione. È Dio in azione. E mi rivengono in mente alcune parole di Merton in una lettera: “La gloria [di Dio] in me consisterà nel ricevere da me qualcosa che non potrà mai ricevere da nessun altro, perché è un suo dono a me che non ha mai fatto né mai farà a nessun altro”.

Noi siamo chiamati a essere nuove parole per Dio in quel senso. E celebriamo Merton in parte a motivo della convinzione, che le vite di alcune persone diverranno parole per Dio in maniera molto particolare. Questa vita, questa identità, questo volto, questa voce, questa “tonalità” di essere, diviene una parola da Dio a noi, un parola che Dio ci rivolge.

La poesia e la contemplazione, identificando, abbozzando o indicando cosa potrebbe voler dire per Dio trovare parole nel mondo, in maniera analoga sfidano altri generi di parole per Dio: quelle antiche, quelle sicure, quelle che denotano pigrizia, quelle utili. Ed è qui che il poetico e il contemplativo si ricongiungono con il profetico, poiché il profetico riguarda interamente la diagnosi di parole morte e atti falsi.

Il compito profetico consiste nell’annusare la morte che si cela in una data situazione … Questo non significa che privilegiamo la mancanza di articolazione o addirittura il silenzio. Ma vuole tuttavia dire che il linguaggio poetico e quello contemplativo, lo sforzo teso a cercare nuove parole per Dio e a comprendere la natura della scrittura religiosa, dello scrivere come attività religiosa, non è altro che un’impresa profondamente autocritica, un vivere sotto giudizio.

E ciò non è che un ulteriore modo per dire che queste sono attività che non possiamo iniziare ad afferrare o a stringere in alcun modo tra le mani senza un senso vivido e a volte ricco di timore di ciò a cui esse possono portare. Il poeta e il contemplativo vivono sotto un cielo molto ampio, che talvolta è un cielo notturno. Il tentativo di costruire rifugi o di scavare buche, di tracciare utili mappe della volta celeste che consentano di orientarsi, è una seduzione sempre presente. La cosa più importante che possiamo fare, forse, se siamo anche solo minimamente interessati al linguaggio della poesia e della contemplazione, è piazzare delle targhette di avvertimento sulle nostre panche, i nostri altari e i nostri inginocchiatoi; consci tuttavia, allo stesso tempo, che non si tratta di moniti riguardanti le punizioni in cui potremmo incorrere in caso di errore, ma di promemoria di come sia facile diventare prigionieri di quella volontà desiderosa di controllare che amiamo e alimentiamo, e di quanto sia terribile una prigione di tal genere per qualsiasi uomo.

Rowan Williams, Azione e contemplazione

Abbiamo l'umanità in comune

Leggi tutto: Abbiamo l'umanità in comuneAnziché opporre, come si fa spesso, identità e alterità, cioè l’affermazione di sé e il riconoscimento dell’altro, si deve ritenere che proprio con il riconoscimento dell’altro si diviene se stessi. Accettare la differenza significa accettare l’altro così come si presenta, come si dice, come è. Significa anche – e questa è spesso la cosa più difficile – accogliere lo sguardo che egli ha su di noi. Ora, quando si entra in dialogo, si tende spesso a situare l’altro in rapporto a sé, cioè a ricercare, forse in modo inconscio, ciò che nell’altro ci assomiglia. Finiamo allora in un gioco di specchi, e dell’altro riteniamo solo ciò che rinvia a noi stessi …

Il meglio dell’altro è ciò che egli ci consegna nella fiducia. Ma perché ciò accada, dobbiamo attendere qualcosa da lui. Non c’è, in effetti, dialogo vero né possibile se non si attende niente dall’altro. Ora, questo ha senso solo confessando in sé una mancanza, un’incompiutezza o, meglio, un’insufficienza. L’esperienza dell’amore, l’esperienza più fondamentale ed universale che ci sia, lo insegna a ciascuno di noi. La sufficienza nega l’altro, o assimilandolo a sé in quanto cosa nostra o negandolo con il rifiuto stesso di vederlo. Accogliere l’altro senza ridurlo al proprio bisogno è vivere nel desiderio scavato da una mancanza fondatrice, da un’apertura …

Il dialogo si appoggia su questa convinzione: abbiamo l’umanità in comune, l’umanità che ci è data e, più ancora, l’umanità come qualcosa di fragile su cui occorre vigilare, l’umanità come compito da adempiere. Ogni essere umano, ogni cultura porta in sé un volto dell’umanità messo in pericolo dal solipsismo o dall’uniformità. Il dialogo, invece, inscrive nell’umanità la coscienza che ciascuno non vive che grazie alla sua relazione con gli altri, e suggella il carattere simbolico di ogni umanità. Ciò dice la necessità per ogni essere umano di accettare questa mancanza costitutiva che fonda la sua capacità di entrare in alleanza o in solidarietà e, perciò, di nascere alla propria identità

Dobbiamo accettare che il dialogo ci alteri. Nei due sensi della parola: ci mette sete dell’incontro con l’altro e ci cambia anche. Inoltre, il dialogo fa nascere altre domande, apre altre prospettive e chiama ad altri incontri. Ma soprattutto c’è un effetto di ritorno del dialogo su di sé, sul nostro modo di interpretare l’umanità, di vivere la nostra fede e di comprenderla. Non si esce dal dialogo come si è entrati. Non solo, come è evidente, si impara qualcosa dell’altro, si è introdotti a nuovi sguardi sull’uomo, si è raggiunti da nuove domande; ma anche, ed è la cosa più difficile da vivere, si diviene altro.

Jean-Marie Ploux, Il dialogo cambia la fede?